Alessandro Mari “profeta in patria” da Boragno con la sua “Troppo umana speranza”
L'autore, cresciuto a Sacconago, fa il pienone in sala con il suo romanzo dedicato al Risorgimento, tra "mostri sacri" della storia patria e personaggi di fantasia. "Volevo ridare carne a ciò che era marmo"
Pienone ieri sera presso la libreria Boragno per Alessandro Mari, "profeta in patria" nella sua Busto. Il giovane scrittore, resciuto a Sacconago, sta spopolando con il suo "Troppo umana speranza", romanzo-fiume pubblicato per i tipi di Feltrinelli e che ripercorre la maturazione di alcuni personaggi, veri e di fantasia, negli anni chiave del Risorgimento. L’apprezzamento di pubblico e critica c’è: e da Boragno, grazie anche all’eccellente presentazione e analisi dei temi fatta da Marisa Ferrario Denna, tutti sono rimasti incollati alla sedia (quando non in piedi) a seguire la presentazione dell’opera. Da quando Varesenews intervistò Mari, è passato oltre un mese coronato da successi di vendite che fanno presagire una prossima ristampa. Inclusa una comparsata televisiva al programma tv di Gad Lerner "L’infedele", dove Mari è invitato nuovamente lunedì 7 marzo, permettendo la sua già fitta agenda di presentazioni.
Il 17 marzo sarà festa nazionale per i 150 anni dall’Unità: ed è anche, guardacaso, il trentunesimo compleanno di Alessandro. La cui giovane età, a paragone di un romanzo così ricco e maturo, è uno degli elementi che più piacevomente stupiva il pubblico. «Il Risorgimento fu l’unico momento epico della storia nazionale» è l’opinione di Alessandro. «Tutti siamo pronti a festeggiare il 25 aprile o il 2 giugno, ma chissà perchè non il 17 marzo, nascita del regno d’Italia. Volevo tentare di restituire la carne a ciò che si crede essere solo di marmo», ridare vita a ciò che al più è consegnato a lapidi e statue. «Credo che la narrativa possa essere un momento per avvicinarsi a un momento avvincente della storia nazionale, che ha grandi parallelismi con l’oggi, quando sentiamo, soprattutto noi giovani, mancare una prospettiva del futuro. Si viveva allora in uno stato che non era tuo, e senza la possibilità di immaginare un futuro diverso». I personaggi, le cui storie si incrociano in modi imprevedibili, sono orfani di riferimenti e di guida, abbandonano tutto, il viaggio o l’esilio sono costanti del romanzo. «Non hanno qualcuno che li indirizzi, un po’ come l’Italia non lo aveva: trovò però dei catalizzatori nei Garibaldi e nei Mazzini. Mancavano fin lì esempi pratici da seguire», e anche i riferimenti cercati a volte non si dimostrano all’altezza. La "troppo umana speranza" del titolo, dice l’autore, «è la cosa migliore della giovinezza, la capacità di pensare con il sentimento piuttosto che con la realtà. Una speranza così umana che a volte ti porta anche a pessimi risultati».
Con il suo romanzo Mari ci offre un racconto corposo, denso, magmatico, una lingua ricca che sa essere alta e bassa a un tempo, colta e popolare, senza rinunciare a qualche riferimento al dialetto (sinaghino, of course, grazie ai suggerimenti di Mariolino Rimoldi). Un romanzo che "denuncia" subito di essere stato scritto da un grande e onnivoro lettore di romanzi ottocenteschi e non solo, echeggiando in momenti diversi gli autori più disparati (Marisa Ferrario Denna cita dal Manzoni all’Ariosto, da Dickens a Nievo, da Stendhal e Dumas a Flaubert, Dostojevskij e Tolstoj), al punto che solo il lettore più preparato culturalmente può appieno cogliere questi accenti – senza nulla togliere al semplice piacere della lettura delle vicende dei personaggi. Quasi ottocento pagine, ma che non stancano, con alcune figure tratteggiate in modo indimenticabile. Non solo quelle dei protagonisti, sviscerate fino alle radici del loro essere dalla penna di Mari, ma quella dei coprotagonisti, figure tutt’altro che comprimarie. E così, accanto al sempliciotto Colombino da Sacconago, un povero "menamerda" orfano e semi-idiota, cresciuto dal parroco come un figlio, personaggio fondativo che apre e chiude il romanzo, c’è il mulo Astolfo, figura da letteratura picaresca tardorinascimentale, dotato di dignità di parola (pensata) dal romanziere; accanto a Giuseppe Garibaldi c’è la sua Anita, figura esemplare di donna passionale, volitiva, combattiva, decisa a vivere e morire con e per il suo Josè tra battaglie, gravidanze, fiumi e oceani da guadare e febbri letali. Il romazo ripercorre infatti gli anni dal 1839 al 1849, quelli dell’amore dal destino tragico fra l’Eroe dei Due Mondi e la giovane incontrata a Laguna, nel Rio Grande do Sul ribelle all’Impero del Brasile. Ma sono anche gli anni in cui Mari fa incamminare il suo Colombino per un viaggio della speranza verso Roma, a causa di un matrimonio negato dalla famiglia di lei; in cui Leda, una giovane orfana del Sud, abusata e sfruttata, è costretta a fare la spia, tra ricatti, assassini e orrende violenze, presso Giuseppe Mazzini a Londra, appassionandosi poco a poco a quel singolare padre di una patria che ancora non c’è; gli anni in cui Lisander, un maramaldo di milanese dal talento pittorico, figlio di genitori osti, assassinati, e con una sorella pazza in manicomio, circondato da una coorte di amici già "scapigliati", i Romantici di Sbieco, non s’inventa, sfruttando l’invenzione geniale della fotografia, il primo commercio clandestino di immagini pornografiche (dato, ripete Mari, storicamente vero, per quanto il personaggio sia di fantasia).
«Il romanzo è nato con Colombino, qui a Sacconago» dice l’autore, «personaggio che ha il fascino dell’idiota, ossia del portatore di un’intelligenza differente, e che ha l’ingenuità dei santi e dei pazzi. Non avendo trovato un tempo contemporaneo e quasi naturalmente è ricaduto in quel Risorgimento che conoscevo. Era un tempo che aveva una carica di giovinezza, chi ha combattuto aveva vent’anni, poi ci sacrificava "senza speranza di premio", per la Repubblica romana nel 1849 i caduti romani furono uno su dieci appena, tutti gli altri venivano da fuori. Fino alla fine del romanzo, nei miei personaggi c’è la speranza che possa accadere qualcosa di buono». Il libro ha richiesto all’autore quattro-cinque anni di lavoro «per fascinazione e accumulazione» e una profonda preparazione sui più vari aspetti di un’epoca su cui davvero ci apre una finestra. «L’ho dedicato a mio nonno, che mi raccontava della vecchia Sacconago durante le passeggiate. Ho assunto che quella di cent’anni prima non fosse poi molto diversa nel modo di vivere e pensare».
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