Paolini fa sognare con la sua fiaba per grandi

“La macchina del capo” conquista la platea varesina: tutto esaurito per una storia dal sapore di Carosello e pantaloni corti

monguzzi paoliniNicola è un bimbo come tanti, di quelli “piccoli” nei primi anni 60. Senza playstation, venuto su a battaglie dei bottoni in un’eterna via Paal di provincia, ha imparato a nuotare in treno, per poco non stacca un dito a Paolo VI e come tanti suoi coetanei lotta tutti i giorni con carta assorbente, gomma e pennino da inchiostro.
Storia d’altri tempi – neppure troppo lontani – quella de “La macchina del capo”, raccontata con dovizia, parole musicali, e tanto amarcord da un Marco Paolini in forma smagliante che ieri sera ha fatto il pieno d’applausi in un teatro Apollonio-Chebanca con pochissimi posti vuoti.
In una scenografia minimale ma molto efficace, con l’accompagnamento musicale di Lorenzo Monguzzi dei “Mercanti di Liquore, Paolini riporta le lancette dell’orologio in classe alle elementari, nelle partite di pallone fra strampalati amici, e in colonia. Le vacanze, a Cattolica con quelle signorine che tanto facevano sognare il piccolo Nicola, soprattutto nei noiosi sonnellini al pomeriggio quando tutta la camerata di bimbi contava i raggi del sole tra le tapparelle.
“Ma dove sono finiti quei tempi?” Sembra chiedersi l’attore di fronte ad un pubblico a tratti colpito dai riferimenti “profondi” (Gaber, Zanotelli) e con le lacrime agli occhi per le battute.
Lo spettacolo, senza volerlo, ripercorre alcuni tratti di una gioventù comune ad un grande della letteratura italiana, il premio Nobel Dario Fo, che le racconta nel suo “Paese dei Mezaràt”. Uno che come il piccolo Nicola aveva il padre ferroviere, vedeva nei tetti delle strane prelibatezze (“In Svizzera sono di cioccolato” gli facevano credere mentre a Nicola proibivano l’accesso alla soffitta, che custodiva un patrimonio: le mele), e di tanto in tanto incontrava qualche matto tra gli amici e i conoscenti.
Uno spettacolo completo, lungo (2 ore), ma che non stanca. L’unico limite è proprio quello generazionale: per goderselo appieno i nati dopo il ’70 devono per lo meno farsi raccontare dai fratelli maggiori cos’era la carne Montana e come si faceva a scrivere con questo benedetto pennino.
Ma cos’è la macchina del capo? Il segreto non va svelato subito. E su questo Paolini lascia sulle corde il pubblico, fino alla fine, quando la narrazione si fa più fitta, musicale, con un ritmo ondeggiante tra Fred Buscaglione e Vinicio Capossela che lascia senza fiato e svela cos’è la macchina del capo: è quello che prima o poi ti fa crescere e far capire che stai diventando grande.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 04 Aprile 2011
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