Il conflitto senza fine tra israeliani e palestinesi

L'analisi delle ultime vicende politiche e belliche di Cosimo Cerardi

Palestina Hamas Israele

Le riflessioni di Cosim o Cerardi, segretario del Pci di Varese, sulla situazione in Palestina dopo lo scoppio dell’ennesimo conflitto tra israeliani e palestinesi.

In questi giorni si sta assistendo ad una nuova recrudescenza dello scontro in Palestina, sono più intensi rispetto a quanto si era visto nel 2014. Negli anni scorsi ci sono stati diversi momenti in cui una grave crisi sembrava inevitabile: le violenze però erano sempre rientrate.

Se nei primi tre mesi del 2021 sono stati tranquilli, senza lanci di razzi o bombardamenti ne altri scontri nelle ultime settimane però si sono riaccesi tutti quei conflitti che non sono mai stati risolti, il fuoco covava sotto la cenere e puntualmente l’insieme dei problemi fra le due comunità hanno funzionato da volano per la ripresa dell’attuale scontro.

La disputa territoriale che riguarda israeliani e palestinesi è considerata la più complessa al mondo: riguarda luoghi frequentati da secoli dalle due parti, e in cui sono state combattute guerre e realizzate invasioni. Ma cos’è che anima con sistematica puntualità i diversi conflitti in quella parte del Medio oriente, della Palestina? Ciò che anima tale conflitto è l’assoluta convinzione da parte della classe dirigente israeliana della necessità di una ripresa del conflitto, e per cui l’acutizzazione dello scontro nei territori a questo punto è dovuto all’atteggiamento predatorio di Israele nei confronti dei territori palestinesi, la necessità volta ad acquisire dei territori palestinesi da parte dei coloni israeliani, e ciò, ovviamente, deve comportare la distruzione delle infrastrutture palestinesi, case, strade ed altro, per cui l’offensiva miliare rappresenta un punto di non ritorno, che significa l’acquisizione unilaterale dei territori palestinesi stabiliti dai diversi accordi internazionale, compreso quelli di Oslo.

Significativa è rimasta l’affermazione di Benny Lieberman, portavoce del movimento degli insediamenti in Giudea e Samaria, un’organizzazione in cui si riconoscono più di 220 mila coloni israeliani che risiedono da tempo nei territori occupati, e in barba a tutti gli accordi internazionali, il divieto di costituire uno stato palestinese in quanto assoluta ” minaccia nei confronti dell’esistenza dello stato di Israele”, in quanto codesto stato darebbe origine ad una “ trincea avanzata di quanti hanno come unico obiettivo una nuova Shoah, la distruzione del popolo di Israele”.

Tale affermazione ben si intreccia con un’ideologia nazionalista, in cui è presente una forte venatura messianica, infatti così aggiungeva Lieberman :” Nessuno può mettere in discussione il diritto del popolo ebraico a vivere in Eretz Isra’el. La terra d’ Israele non è materia negoziabile, chi lo fa commette un atto blasfemo perché si erge all’altezza di Dio. Prima ancora che un traditore, è un sacrilegio” (Limes, Rivista Italiana di Geopolitica, p.44, 2002).

A questo punto ogni commento è inutile, in quanto si dice apriori che uno stato palestinese in Terra Santa non potrà mai esistere, e se si dovesse procedere in tal senso ciò è da ritenersi come atto di terrorismo nei confronti dello stato di Israele. Un conflitto dunque che alla base si rileva mancante di un punto, e cioè il riconoscimento da parte della maggioranza degli israeliani della necessità della presenza di uno stato palestinese, in quanto solo gli israeliani sono legati biblicamente a quei territori, dall’altra parte i Palestinesi che considerano gli israeliani alla stregua di invasori stranieri, invasori che non hanno alcun diritto a stabilirsi in una terra : la maggior parte degli israeliani ritiene che il legame dei palestinesi con i luoghi della Bibbia non sia forte quanto il loro, mentre moltissimi palestinesi considerano gli israeliani alla stregua di invasori stranieri che non hanno alcun diritto di stabilirsi in una terra che loro non abitano da secoli.

Quindi l’attuale scontro, altro non è che il frutto di un” blocco” iniziato con la Guerra dei Sei Giorni avuta del 1967, una guerra che ha sancito in modo permanente l’occupazione israeliana di tutta la Cisgiordania e di Gerusalemme Est, quella parte di Gerusalemme che a livello internazionale era stata assegnata ai Palestinesi. Al termine della guerra, Israele occupò tutta la Cisgiordania e soprattutto Gerusalemme Est.

Da allora Israele ha, apparentemente, ceduto pezzi dei territori conquistati – come la Cisgiordania e la Striscia di Gaza – a forme di autogoverno palestinese, ma mantenendo il diritto di intervenire militarmente in tutti i territori, e di colonizzare passo dopo passo vari parti del territorio cisgiordano e della stesse Gerusalemme Est .
Dall’altra parte, i palestinesi hanno cercato a lungo di trovare il modo di sconfiggere definitivamente gli israeliani; e quando hanno capito che non era più possibile a causa dell’accresciuta potenza militare di Israele, diversi gruppi radicali hanno scelto di passare alla lotta armata, legittimata anche da quelli meno radicali, per fare pressione affinché le autorità israeliane cedessero pezzi di territorio.

Nonostante gli innumerevoli tentativi, le due parti non sono mai riuscite a trovare un compromesso né su una gestione condivisa di Gerusalemme né sull’assetto del futuro stato palestinese, auspicato dalla maggior parte della comunità internazionale.

Un fatto ormai acclarato è dato dalle condizioni in cui vivono i palestinesi, da decenni, soprattutto quelli della Striscia di Gaza soggetti da anni a un durissimo embargo, dove si assiste ad uno stato di militarizzazione permanente con una presenza massiccia dell’esercito israeliano che detiene, a livello mondiale, uno dei più agguerriti eserciti di leva, con una propensione da parte di quest’ultimo a creare periodiche tensioni e violenze su l’inerme popolazione palestinese.

Ma ciò che rende ancora più devastante l’attuale conflitto è dato dal fatto che è da tempo che entrambe le parti stanno attraversando una crisi politica di cui ancora oggi non si vede la risoluzione. Infatti in Israele negli ultimi due anni si sono tenute ben quattro elezioni parlamentari, nessuna delle quali ha prodotto una maggioranza stabile. Il primo ministro Benjamin Netanyahu è in carica ormai da 12 anni, ma è sempre più logorato dai processi per corruzione in corso e dall’assenza di una forte maggioranza politica che lo sostenga; in tutti i suoi ultimi governi, Netanyahu è stato ostaggio degli interessi di parte, soprattutto dei potentissimi e influenti partiti della destra nazionalista religiosa, che peraltro negli ultimi anni sono riusciti a spostare molto verso destra il dibattito pubblico israeliano.

L’assenza di un governo stabile ha comportato il fatto che non ci fosse una classe dirigente israeliana in grado di impedire pericolose escalation, come ha rilevato  al Washington Post  un noto opinionista ed esperto della politica locale di Gerusalemme.

Poco prima dell’inizio del nuovo ciclo di violenze, Israele sembrava indirizzato verso le quinte elezioni parlamentari, da tenere probabilmente in autunno. Inoltre il 2 giugno, almeno in teoria, nel paese si voterà per eleggere il nuovo presidente della Repubblica: una carica formale che però ha enorme importanza nei periodi di formazione del governo, dato che assegna personalmente il mandato di primo ministro.

In questi anni il presidente Reuven Rivlin, un conservatore moderato, ha rappresentato un discreto contraltare alla svolta a destra dei governi Netanyahu: e non è chiaro cosa potrebbe accadere se fosse sostituito da un politico con posizioni più radicali.

In Palestina le ultime elezioni presidenziali si sono tenute nel 2005, mentre le ultime parlamentari nel 2006 (e il loro esito ha prodotto un feroce scontro interno tra le diverse fazioni palestinesi. Nuove elezioni presidenziali e parlamentari vengono periodicamente indette da anni senza però mai essere organizzate per davvero. Le lungaggini sono attribuite soprattutto all’Autorità Palestinese, una forma “embrionale” di stato palestinese – ma di fatto mai diventata uno Stato – con un proprio governo e parlamento, che dal 2005 governa la Cisgiordania. La Striscia di Gaza è invece governata di fatto dal gruppo politico-fondamentalista di Hamas.

Il gruppo dirigente dell’Autorità Palestinese è ancora quello che ruotava attorno allo storico leader Yasser Arafat, morto nel 2004: è composto soprattutto da uomini molto anziani ormai poco a contatto con l’elettorato palestinese, eppure assai restii a cedere il proprio potere.

A gennaio Abbas aveva promesso di indire nuove elezioni in tutta la Palestina, ma si è rimangiato la promessa appena tre mesi dopo, scaricandone la responsabilità sul mancato coordinamento autorità israeliane; una motivazione che diversi osservatori hanno giudicato una scusa per timore di sottoporsi al giudizio elettorale dei palestinesi.

Non aiuta il fatto che in Israele e nei territori governati dai palestinesi la gestione della pandemia da coronavirus sia stata molto diversa. Israele è uno di quei paese occidentali che ha segnato un alto tasso di investimenti per quanto riguarda una vaccinazione di massa , grazie soprattutto a un ingentissimo stanziamento del governo per ottenere grandi dosi del vaccino sviluppato da Pfizer-BioNTech. Nei territori palestinesi la vaccinazione va molto a rilento, sia per una carenza di strutture sanitarie e di risorse economiche, sia per le difficoltà legate all’embargo di Israele nei confronti della Striscia di Gaza: secondo quanto è sostenuto da un noto quotidiano israeliano, che all’inizio di maggio i palestinesi vaccinati in Cisgiordania e Striscia di Gaza erano appena 300mila su un totale di circa 5 milioni di persone.

L’escalation di questi giorni è stata innescata da un’antica disputa legale che la Corte Suprema israeliana avrebbe dovuto risolvere lunedì 10 maggio con una sentenza definitiva, poi rinviata a causa delle tensioni crescenti. La disputa riguarda in modo precipuo  , un quartiere di Gerusalemme Est ( Sheikh Jarrah), un quartiere che ha una storia ingarbugliata e controversa.

Da decenni alcune famiglie palestinesi rischiano di essere sfrattate da una casa che venne donata loro dal governo della Giordania, con l’appoggio dell’ONU, nel 1956, quando Gerusalemme Est era controllata dalla monarchia giordana. Il problema però è che quei terreni erano di proprietà di alcune comunità di ebrei che si erano allontanate a causa delle violenze della guerra del 1948. La legge israeliana prevede che tutti gli ebrei che hanno lasciato le proprie case nel 1948 possano rientrarne in possesso: il problema però è che la stessa prerogativa – chiamata anche “diritto di ritorno” – è vietata ai palestinesi. Sheikh Jarrah inoltre si trova a Gerusalemme Est, cioè in un territorio che gran parte della comunità internazionale assegna ai palestinesi.

All’avvicinarsi del giorno della sentenza di sfratto nella sera, ed a partire dalla settimana scorsa, decine di attivisti per i diritti dei palestinesi avevano manifestato contro gli sfratti, attirando sia le attenzioni dei giornali internazionali sia quelle dei palestinesi sparsi fra Israele, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

A complicare ulteriormente le cose, poi, ci si è messo il calendario. Più o meno negli stessi giorni quest’anno è caduta sia la fine del Ramadan, il mese sacro per i musulmani che spesso coincide con corpose manifestazioni di protesta soprattutto a Gerusalemme (quest’anno represse con forza   dalla polizia israeliana), sia il Giorno di Gerusalemme, una ricorrenza in cui gli israeliani nazionalisti celebrano quella che chiamano la «riunificazione» di Gerusalemme durante la Guerra dei Sei Giorni: in altre parole, l’occupazione militare israeliana di territori che la comunità internazionale ritiene di spettanza palestinese.

A questo punto è evidente che la combinazione degli ultimi eventi a Gerusalemme abbia ricordato ai palestinesi, e non solo, chi siano e cosa stiano combattendo, cioè uno stato e una società che nega la loro possibilità di realizzazione. E ciò non lo si dice per giustificare alcuna violenza, ma, semmai, per capire da sua genesi, infatti cosi ha avuto modo di scrivere un analista del Council on Foreign Relations ( gruppo di esperti in questioni internazionali statunitense), su Foreign Policy. Diversi osservatori sostengono però che l’elemento decisivo che abbia funzionato da catalizzatore sia stato il coinvolgimento di Hamas.

L’annullamento delle elezioni aveva messo il gruppo in una posizione molto scomoda, costringendolo a continuare a collaborare con i nemici storici di Israele e gli avversari dell’Autorità Palestinese controllata da Fatah, il principale partito laico palestinese, per gestire le conseguenze della pandemia, ma senza la prospettiva di arrivare al potere in breve termine anche in Cisgiordania. Hamas si preparava da mesi al voto, tanto che aveva già iniziato a tenere delle primarie interne per decidere i candidati migliori da schierare nelle varie circoscrizioni.
In un certo senso, per Hamas, i fatti di Sheikh Jarrah e le solite manifestazioni del Ramadan erano un’occasione imperdibile per mettersi a capo delle proteste e riaffermare la propria presa sull’elettorato palestinese.

L’occasione è stata colta: Hamas ha di fatto infiltrato i movimenti di protesta con i propri membri, alimentato la tensione con i propri mezzi di comunicazione e soprattutto superato esplicitamente quella che il governo israeliano considera una linea rossa, cioè la sicurezza degli israeliani che abitano a Gerusalemme e Tel Aviv, prese più volte di mira dai lanci di razzi compiuti in gran parte proprio da Hamas. L’espediente sembra avere già funzionato: sui giornali israeliani ci sono diverse analisi secondo cui Hamas che in realtà avrebbe vinto, in un certo senso.

Le immagini del panico scatenato dalle sirene che annunciano l’arrivo dei razzi palestinesi e del Parlamento israeliano evacuato per timori di un attacco hanno permesso ad Hamas di ottenere una vittoria mediatica nel dibattito interno palestinese, infatti puntualmente sul Times of Israel, è comparsa un’analisi assai significativa, che all’incirca recita che ” sebbene Hamas possa perdere la guerra contro Israele oppure uscirne ammaccata quando finiranno i combattimenti, ha già vinto la battaglia per il controllo delle proteste con Fatah”, che infatti negli ultimi giorni si è fatta sentire pochissimo.

Da quanto si è sostenuto si evince che la situazione è ben lungi a trovare alcuna soluzione e che il vento della guerra in Medio Oriente è ritornato a soffiare a partire dalla Palestina, ma ciò che fa salta agli occhi di qualsiasi analista serio e che il mancato rispetto degli accordi internazionali, accordi che sancivano l’esistenza dei due stati, autonomi e indipendenti, a fronte delle nuove dinamiche innescate dalle politiche sioniste di Israele, anche mediaticamente ben supportate dagli Stati Uniti( significativi sono i silenzi stampa nazionali e internazionali, visibilmente affetti da distorte informazioni su quanto accade realmente nei territori, per non parlare dei silenzi stampa a proposito dei diversi movimenti europei che spontaneamente hanno dato solidarietà al popolo Palestinese), volte ad incentivare contraddittoriamente tutti i fondamentalismi, rischia di rendere ancora più temibile un nuovo conflitto mediorientale. Una siffatta politica internazionale rischia di dare luogo all’ennesima immagine degli apprendisti stregoni che sono in grado di scatenare forze il cui controllo non è dato per certo, e ciò a fronte di una diplomazia statunitense che da lungo tempo sembra afflitta dal “complesso di Polifemo”.

Orlando Mastrillo
orlando.mastrillo@varesenews.it

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Pubblicato il 19 Maggio 2021
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