Il toro di Cat Stevens
Scelse una metafora buddista per il suo disco del 1972
E dopo due (o anche tre) album in fondo simili che lo hanno portato al successo, Cat Stevens dove va? Il misterioso titolo viene da una serie di dieci poemi illustrati della tradizione del buddismo zen: nei primi tre vi è l’inseguimento del toro, nel quarto appunto la sua cattura, e nei restanti un’esperienza di trascendenza, con il toro che rappresenta la mente. Però non si può dire che sia un disco più spirituale dei precedenti. Anzi: soprattutto nella seconda facciata vi è molto pessimismo anche nella percezione della scarsa utilità del proprio ruolo in un mondo che peggiora continuamente. Musicalmente, anticipando ciò che verrà dopo, tende ad essere un po’ più ricco degli altri: qualche sintetizzatore e la presenza del nuovo tastierista Jean Roussel, che diventerà suo compagno di strada, si fanno sentire. Vende moltissimo, roba da primo posto USA, ma, forse anche per la mancanza di un singolo trascinatore, non verrà ricordato come uno dei suoi album migliori: i giovani di allora però lo amarono incondizionatamente.
Curiosità: strana l’idea che in un disco dal titolo buddista, la favoletta folk del bambino “figlio dell’amore” veda sulla sua fronte una luna ed una stella, simboli dell’Islam che nulla c’entrano nemmeno con l’ambientazione medievale inglese. L’incontro del nostro con quella religione, e la seguente conversione, avverranno qualche anno dopo.
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