Meloni a Washington e il nuovo ordine tecnologico globale

Nel 1992 il Paese era ancora il cuore pulsante dell’innovazione tecnologica. Oggi, invece, l’America si ritrova a rincorrere. A rincorrere la Cina, che domina le catene globali delle terre rare. A rincorrere Taiwan, Giappone e Corea del Sud

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Quando sono arrivato negli Stati Uniti nel 1992 con un visto H1B in tasca e molti sogni nella testa, il Paese era ancora il cuore pulsante dell’innovazione tecnologica. I microchip? Inventati in California. Le terre rare? Estratte e raffinate in miniere americane. Era un’epoca in cui gli Stati Uniti guidavano il mondo in entrambi i settori, con aziende e università capaci di attirare i migliori talenti (o gli infiltrati come me) da ogni angolo del pianeta.

Oggi, invece, l’America si ritrova a rincorrere. A rincorrere la Cina, che domina le catene globali delle terre rare. A rincorrere Taiwan, Giappone e Corea del Sud, che producono i microchip più avanzati al mondo. E nel mezzo, una nuova guerra commerciale che non si combatte più solo con i dazi, ma con blocchi alle esportazioni, investimenti miliardari e trattative geopolitiche che coinvolgono persino territori come la Groenlandia o l’Ucraina.

Ma cosa sono davvero le terre rare? Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica, dai nomi poco noti come neodimio, disprosio, lantanio o ittrio. Non sono in realtà così “rare” nella crosta terrestre, ma lo diventano perché difficili da trovare in forma pura e ancora più difficili (e inquinanti) da estrarre e raffinare. La loro importanza è strategica: si trovano ovunque. Nei motori elettrici delle auto, nei magneti potenti degli altoparlanti e delle turbine eoliche, nei radar, negli smartphone, nei display a colori dei computer, persino nei macchinari medici per la risonanza magnetica e nella tecnologia militare di punta, come i caccia F-35 e i missili Tomahawk. In pratica, “ogni oggetto tecnologico che possiamo accendere o spegnere contiene terre rare” dicono quelli che se ne intendono.

Il grande sorpasso cinese. Fino agli anni ’80, erano gli Stati Uniti il primo produttore mondiale sia di microchip sia di terre rare. La miniera di Mountain Pass, in California, era la più importante al mondo. Ma negli anni successivi, complici i costi ambientali, la concorrenza al ribasso cinese e la mancanza di una strategia industriale di lungo periodo, gli USA hanno progressivamente abbandonato questo settore.

La Cina, invece, ha fatto l’opposto. Nel 1992, durante una visita in Mongolia Interna, il leader cinese Deng Xiaoping pronunciò una frase che suona oggi quasi profetica: “Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare.” Da quel momento, Pechino ha investito massicciamente per costruire un’industria integrata: estrazione, raffinazione, produzione e trasformazione. Ha accettato i costi ambientali elevatissimi (le terre rare rilasciano anche elementi radioattivi) e ha usato standard più bassi per vincere sul prezzo. Risultato? Oggi la Cina controlla oltre il 60% dell’estrazione globale e oltre il 90% della raffinazione. E adesso ha cominciato a usarle come arma geopolitica.

La guerra dei dazi e l’arma delle terre rare. In risposta ai dazi americani, la Cina ha recentemente imposto restrizioni sull’esportazione di diversi elementi rari, in particolare quelli “pesanti”, fondamentali per la difesa. Serviranno licenze speciali per esportarli, e non sarà facile ottenerle. Il messaggio è chiaro: se gli USA vogliono essere indipendenti, dovranno cavarsela da soli. Ma non possono. L’America importa il 70% delle sue terre rare dalla Cina. Ha solo una miniera attiva, e deve comunque inviare il materiale in Cina per il processo di raffinazione. Le alternative, come l’Ucraina o la Groenlandia, sono difficili da attivare, e le relazioni diplomatiche con questi territori si sono deteriorate recentemente. Trump ha provato a rilanciare la produzione nazionale, ma ci vogliono decenni per ricostruire una filiera che altri Paesi hanno curato per 30 anni.

I microchip: il cuore digitale della competizione globale. E i microchip? Anche qui, la storia è simile. Inventati negli Stati Uniti, sono oggi prodotti soprattutto in Asia. Un microchip moderno può essere progettato in California, prodotto a Taiwan (alla TSMC), con materiali provenienti dalla Cina, incapsulato in Vietnam, assemblato in Cina, e solo alla fine spedito in America. Questa filiera globale ha funzionato per decenni, ma ora è sotto attacco. Trump ha imposto dazi, minacciato aziende come TSMC e cercato di forzare la costruzione di impianti negli USA. Aziende come Samsung e la stessa TSMC hanno accettato di investire miliardi in Arizona e Texas, grazie anche ai sussidi pubblici del CHIPS Act. Ma i problemi restano: mancano ingegneri specializzati (e le nuove restrizioni sull’immigrazione sono masochistiche), i costi sono elevatissimi, ci sono ritardi nei cantieri e resistenze sindacali. Il risultato? Anche se le fabbriche americane produrranno chip, questi saranno comunque “una generazione indietro” rispetto a quelli taiwanesi, prevedono gli analisti.

Un problema di visione, non solo di fabbriche. La verità è che non si può costruire un settore high-tech solo con i dazi o con la retorica. Servono visione, capitale umano, ricerca e soprattutto cooperazione internazionale. La Cina è arrivata dove si trova oggi non per caso, ma grazie a un piano strategico coerente e lungo decenni (hello Italia). E l’Asia ha costruito il suo ecosistema dei microchip puntando su collaborazione, specializzazione e apertura. L’America, e anche l’Europa, devono ora scegliere: protezionismo o rete globale? Competizione o cooperazione? Isolamento o alleanze?

Una lezione per tutti: anche per chi fa impresa in Italia. Questa storia non riguarda solo i governi e le multinazionali. È una lezione di change management applicata alla geopolitica. Non si cambia un sistema complesso con un colpo di spugna. Non si ricostruiscono competenze perdute con un decreto. Serve tempo, leadership, e soprattutto la capacità di cambiare mentalità. Chi guida oggi aziende, istituzioni o persino comunità locali deve imparare da tutto questo: la transizione verso un futuro più sostenibile, digitale e autonomo si fa costruendo. Non distruggendo. Coltivando. Non tagliando. Cooperando. Non isolandosi. Anche nei nostri territori, anche nelle nostre scuole, fabbriche e università.
Buon viaggio Primo Ministro, Giorgia Meloni. Il mondo sta a guardare.
“Se cerchi una mano disposta ad aiutarti, la trovi alla fine del tuo braccio”, proverbio cinese.

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Pubblicato il 17 Aprile 2025
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