Trent’anni fa Srebrenica, il genocidio nel cuore d’Europa

L'11 luglio 1995 i nazionalisti serbi conquistavano la città bosniaca, lasciata indifesa dall'Onu. E trucidarono 8372 persone, tutti i maschi, fino ai dodicenni. Il culmine di una guerra che non abbiamo voluto capire

Srebrenica

Senajid e Hariz avevano 19 anni, in quella torrida estate del 1995.
Da allora i loro corpi sono rimasti nella terra, nei boschi della Bosnia orientale.

Nella mattina dell’11 luglio 2025, a trent’anni dalla morte, i loro resti saranno sepolti nel grande cimitero di Potočari, vicino a Srebrenica: sono i due più giovani, tra i sette identificati nell’ultimo anno e che troveranno pace dopo tre decenni.

Nell’estate del 1995, tra l’11 e il 20 luglio, oltre ottomila bosniaci furono trucidati dalle milizie nazionaliste serbe del generale Ratko Mladić e del leader politico Radovan Karadžić: uccisero tutti i maschi dai 12 ai 77 anni che si trovavano nella cittadina di Srebrenica, una delle “zone di sicurezza” che l’Onu si era impegnata a difendere.

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Esumazione di una fossa comune a Kamenica, cinquanta km da Srebrenica. Foto usata come prova al Tribunale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY)

L’ultimo genocidio del Novecento

Era la fase finale e più feroce della pulizia etnica in Bosnia: la strage di Srebrenica puntava a sradicare per sempre la presenza dei bosniaci musulmani dalla valle della Drina, la Bosnia orientale.
Il Tribunale Internazionale per l’ex Jugoslavia (e poi l’Onu) l’ha riconosciuto come un genocidio.

«Chi nega il genocidio tenta di riscrivere la storia e glorifica i criminali di guerra non ha posto tra noi», hanno detto nel 2024 l’Alto Rappresentante Ue Josep Borrell e il commissario europeo all’Allargamento, Oliver Varhelyi, in una dichiarazione congiunta che ribadiva la parola genocidio, in un contesto in cui la parola (evocata per Gaza) è divenuta nuovamente scomoda.

La disgregrazione della Jugoslavia e la pulizia etnica in Bosnia

Srebrenica è stato l’ultimo atto delle guerre in ex Jugoslavia. Il punto culminante e insieme un momento unico, perché per la prima volta si tentava di eliminare completamente una popolazione.

La guerra era scoppiata nel 1991: mentre i riformisti del presidente Ante Marković tentavano ancora di salvare l’unità jugoslava e i nazionalisti di ogni etnia (a partire da Milosevic in Serbia) soffiavano sul fuoco, Slovenia e Croazia dichiararono l’indipendenza, spalleggiati a livello internazionale dalla Germania, che sperava così di estendere la sua influenza sui Balcani.

La guerra in Slovenia durò pochissimo (dieci giorni), quella in Croazia fu ben più lunga e cruenta: nell’estate del 1991 le milizie nazionaliste serbe diedero il via alla pulizia etnica contro i croati in Krajina (regione di confine tra popoli, l’etimologia è la stessa di Ucraina) e nella pianura di Slavonia, nella città di Vukovar.

La guerra in Bosnia scoppiò nella primavera successiva, 1992, scatenata dai nazionalisti serbi che si opponevano all’indipendenza di quella che era la più multietnica delle repubbliche jugoslave, dove nessuna etnia era maggioritaria.
Sarajevo finì sotto assedio, mentre nella Bosnia del Nord e nella valle della Drina per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale ricomparivano i campi di concentramento e i reticolati. Si scatenava la feroce pulizia etnica contro i bosniaci musulmani, indicati con disprezzo come “turchi”. Presentati come nemici giurati dell’Europa, anche se i musulmani dei Balcani erano in larghissima parte tolleranti, laicizzati, alcuni pronti anche a mettersi al tavolo a bere grappa o la birra Sarajevsko.

Nel 1992 la pulizia etnica da parte dei nazionalisti serbi era pressoché compiuta: da tutti i territori di confine nell’Est e nel Nord erano stati scacciati pressoché tutti i bosniaco-musulmani. Località come Foča e Omarska erano state teatro di indicibili orrori, tra stupri etnici e macchinari industriali trasformati in macchine per distruggere corpi e vite.

L’Onu e l’Europa inermi di fronte ai massacri

La diplomazia europea era incapace di agire, bloccata in particolare dalla posizione di Francia e Regno Unito, sensibili alle ragioni dei serbi (in opposizione anche agli interessi tedeschi nell’area).

Nella Bosnia orientale dopo il 1992 rimanevano un pugno di cittadine circondate dai nazionalisti serbi: Srebrenica, Goražde, Žepa erano i nomi di piccole città che – dichiarate “zone di sicurezza” dall’Onu – si riempirono di profughi bosniaco-musulmani dalle campagne e da altre zone.

Tre anni dopo, nel 1995, quelle enclavi si erano trasformate nell’ultimo ostacolo alla divisione della Bosnia in due entità, quella serba e quella croato-musulmana.
«Signori, non capite? Io devo sbarazzarmi di queste enclavi» si lasciò sfuggire, davanti ai suoi ufficiali, il generale francese che comandava i Caschi Blu di tutta  l’ex Jugoslavia in quei giorni.

Srebrenica
Il 12 luglio il generale serbo Mladic brinda con Thomas Karremans, il colonnello olandese che si era arreso

11 luglio 1995: la conquista di Srebrenica e il massacro di tutti i maschi

In quel luglio del 1995 i nazionalisti serbi avevano circondato Srebrenica, avevano già catturato 55 caschi blu dei Paesi Bassi, mentre il comandante locale chiedeva invano bombardamenti sui tank serbi.
Il 9 luglio iniziò l’assalto e l’11 i serbi entrarono nella cittadina, raggiunsero la zona industriale di Potočari dove c’era la base dei Caschi Blu e dove si erano rifugiati migliaia di civili: separarono gli uomini (in realtà anche ragazzi e anziani, dai 12 ai 77 anni) e li uccisero tutti, per estirpare completamente la presenza musulmana.

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La fabbrica di batterie di Potočari, che durante la guerra divenne base dei Caschi Blu. Foto wikimedia 2009

I primi furono uccisi già intorno alla fabbrica di Potočari.
Migliaia di uomini cercarono la salvezza attraverso i boschi, nella speranza di raggiungere le città Sarajevo e Tuzla in mano alle forze croato-musulmane: centinaia di loro furono raggiunti e uccisi, anche a distanza di decine di chilometri, come accadde a Senajid e Hariz, i due diciannovenni che saranno sepolti quest’anno nel grande cimitero di fronte all’ex base dei Caschi Blu.

Le vittime furono 8372, contate una ad una, ritrovate nell’arco di trent’anni. Nei primi anni dopo la guerra ogni estate, all’11 luglio, a Potočari venivano sepolte centinaia di vittime. Negli ultimi anni sono pochi feretri, quest’anno sette.

Srebrenica
I nomi delle vittime a Potočari

Il fantasma d’Europa

«Tutti si ricordano dov’erano l’undici settembre 2001, quando sono cadute le Torri gemelle, ma pochissimi hanno presente dove erano quando è avvenuta la strage di Srebrenica che ha fatto il triplo dei morti di New York» ha scritto Mario Calabresi presentando il podcast Chora Media su Srebrenica.

Le guerre in Jugoslavia e gli orrori della pulizia etnica sono diventati un fantasma da allontanare, da dimenticare.
Fin da allora c’era il pregiudizio contro gli slavi, i balcanici: nella base di Potočari uno dei Caschi Blu olandese tracciò una scritta sgrammaticata divenuta (anche grazie a una fortunata, provocatoria rielaborazione) il simbolo del razzismo con cui molti guardavano alle martoriate popolazioni dell’ex Jugoslavia: “Niente denti? Baffuta? Puza di merda? È una ragazza bosniaca!”.

Srebrenica
La scritta del soldato olandese

Di fronte all’aggressione dei nazionalisti contro chi credeva nella convivenza multietnica si  preferì parlare di guerra etnica, di odi ancestrali, mettendo tutti sullo stesso piano: così a Sarajevo i cittadini – che fossero musulmani, serbi, croati, jugoslavi – lottavano insieme per sopravvivere alle granate dei nazionalisti serbi, ma l’esercito bosniaco non aveva armi per difendersi, messe sotto embargo.
L’aggredito non aveva diritto alla difesa.
E le “zone di sicurezza” dell’Onu alla fine si trasformarono in trappole
, come a Srebrenica.

Sarajevo
Il quartiere di Bistrik a Sarajevo, dove sopra ai tetti svettano campanili cristiani, minareti musulmani e la ciminiera della fabbrica di birra

Chi ha vinto la guerra dei dieci anni?

Gli accordi di Dayton nel 1995 misero fine alla guerra in Bosnia, ma sancirono l’idea della divisione etnica: metà Bosnia ai serbi, metà ai croato-musulmani.

Non c’è spazio per chi non si riconosce in quelle categorie: dopo le guerre che insanguinarono gli anni Novanta, la stragrande maggioranza dei politici continua a soffiare sul fuoco, parlando solo alla propria parte. Ancora si parla di pericolo musulmano. I condannati per crimini di guerra a volte sono tornati a fare politica. L’idea stessa dello scontro perenne è penetrata in Europa.

Sarajevo feb 2025
Il museo del genocidio a Sarajevo e la statua che la città ha realizzato per ricordare Giovanni Paolo II

Il paradosso è che i nazionalisti hanno ottenuto di indebolire l’Islam balcanico tollerante, lasciando spazio ai predicatori arrivati in Bosnia dai Paesi del Golfo Persico, con la loro visione rigida se non integralista, dove di certo non c’è spazio per un bicchiere di birra.

Quelli che ci hanno provato

Migliaia di abitanti della Bosnia sono dovuti fuggire, alcuni si sono stabiliti anche a Varese, anche grazie alla grande solidarietà che si era sviluppata allora e che a Varese – ad esempio – ruotava intorno alle Acli e alle “Donne in nero”, volontari anche giovanissimi che si erano mobilitati.

Nei boschi di Srebrenica, per non dimenticare: Donata Manciani e la marcia per la memoria

Sono i volti di quella solidarietà e di quel pacifismo attivo venuto dall’Italia che pagò anche un prezzo in termine di vite: la vita del pacifista cattolico brianzolo Gabriele Moreno Locatelli ucciso a Sarajevo o quelle dei tre pacifisti bresciani uccisi in Bosnia centrale (cui è dedicato il bel podcast “Nessun Movente”).

I nazionalisti, gli approfittatori e la povera gente

I profughi erano in gran parte bosniaco-musulmani, ma hanno sofferto anche i civili di altre etnie, dalla guerra sono fuggiti anche croati e serbi, ebrei, figli di matrimoni misti.
«Loro hanno fatto affari e a noi ci hanno fregato, tutti» ti ripetono spesso in ex Jugoslavia, riferendosi ai politici nazionalisti e ai profiteri, chi ha approfittato della guerra facendo milioni con la borsa nera e il commercio di armi.
Le campagne sono piene di case distrutte e abbandonate. E non importa che siano campagne serbe, croate o musulmane: la devastazione è rimasta per tutti.

Srebrenica Donata Manciani
Casa distrutta in Bosnia orientale, foto archivio Donata Manciani

Nella povertà, dopo, ci si scopre a volte bisognosi gli uni degli altri, a volte in modo paradossale: proprio a Srebrenica oggi nella squadra di calcio ragazzi serbi e musulmani sono tornati a giocare con la stessa maglia, in una delle poche squadre multietniche di tutta la Bosnia.
Mentre le donne che hanno perso figli e mariti lavorano insieme – serbe e musulmane – nei campi, a coltivare fragole e fare marmellate (è una bella storia, ve la racconteremo). Provano insieme a immaginare un futuro, dopo la disgregazione della guerra scatenata dai nazionalisti.

Frutti di pace a 30 anni dalla guerra in Bosnia

La Bosnia resta però un Paese povero, sia nella metà serba, sia in quella croato-musulmana.
Ed è pieno di ragioni quel verso di Bertold Brecht, che suona un monito anche oggi, che guardiamo a quei fatti ma siamo dentro l’inquietudine di oggi, a Gaza, in Sudan, in Ucraina:

La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori allo stesso modo faceva la fame la povera gente

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 11 Luglio 2025

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