Racchette rotte o silenzio? Il codice invisibile del tennis

Ogni settimana il tennis offre partite, colpi, classifiche, emozioni. Ma a volte ciò che conta davvero non è visibile nel punteggio o ne risultato finale, come nella vita di tutti i giorni

Il viaggio del tennista

Ogni settimana il tennis offre partite, colpi, classifiche, emozioni. Ma a volte ciò che conta davvero non è visibile nel punteggio. Negli ultimi giorni, diversi tennisti si sono lamentati pubblicamente delle condizioni dei campi, dei calendari, della gestione degli eventi. Dall’altra parte, Jannik Sinner, pur coinvolto in tensioni e domande scomode, ha risposto a modo suo: non parlando. Nessuna polemica, nessuna replica diretta. Solo silenzi, lavoro e risultati. Solo un semplice “Io gioco a tennis”.

L’adesione silenziosa a un codice

Non è solo una questione di stile. È l’adesione a un codice. Un sistema di regole non scritte che nel tennis conta quanto, e a volte più, delle regole ufficiali. Il tennis ha una grammatica comportamentale tutta sua. Esiste un galateo silenzioso che regola gli sguardi, i gesti, le esultanze. Cosa si può dire e cosa no. Come si gestisce una vittoria, come si accetta una sconfitta. Quando si stringe la mano al termine della partita. Quando si guarda l’avversario negli occhi. E quando si evita.
Sono regole invisibili, ma determinanti. Fanno parte della cultura profonda di questo sport, e chi le infrange paga un prezzo: in reputazione, in percezione pubblica, in isolamento professionale.

Il tennis ha costruito la propria immagine su una certa compostezza. A Wimbledon, ad esempio, non è solo tradizione a imporre il bianco come abbigliamento comune e obbligatorio: è un messaggio. Uniformità, controllo, eleganza. Il bianco è la metafora di un codice etico: cancellare l’individualismo visivo per far emergere il gioco. Chi scende in campo, accetta implicitamente di rispettare queste coordinate, anche quando non le condivide.

Prima ancora di entrare nel vivo del viaggio del tennista, con le sue tappe mitiche, le sue crisi e i suoi alleati (che vedremo nelle prossime settimane), serve capire il contesto in cui questo viaggio si compie. E questo contesto è fatto di regole comportamentali, emotive, persino morali. Non basta saper giocare. Bisogna saper stare in campo, di fronte a degli spalti vuoti, oppure acclamati o fischiati da migliaia di persone. E per alcuni, questo è già un atto eroico.

L’autocontrollo

Tra le regole non scritte più radicate c’è quella dell’autocontrollo: il tennista ideale è colui che, anche nei momenti più tesi, riesce a dominare le proprie emozioni. Esultare con misura, non protestare con l’avversario, evitare scenate o reazioni eccessive: tutto ciò è parte di un galateo silenzioso che distingue il tennis da altre discipline più spettacolari o fisicamente “rumorose”. Questa disciplina emotiva è talmente radicata da diventare una maschera, un codice che ogni atleta deve imparare a indossare.

Come racconta Andre Agassi nella sua autobiografia Open. La mia Storia, questa dimensione non è solo esterna, ma interiorizzata in profondità: «Non è solo che devi vincere. Devi anche sembrare perfetto mentre lo fai. Tutti ti guardano. Nessuno può aiutarti. Nessuno può nasconderti. Sei completamente esposto, e questo è il bello e l’orrore del tennis».
Il tennista è quindi un personaggio “nudo”, che porta in scena la propria vulnerabilità trattenendola: la tensione tra ciò che prova e ciò che può esprimere è parte della narrazione del match.

Il rispetto dell’avversario

Un’altra regola non scritta riguarda il rispetto dell’avversario: non si esulta in modo plateale su un suo errore, non si interrompe il gioco, non si approfitta di un momento di distrazione. La correttezza non è solo un valore morale, ma una componente narrativa del gioco, che assegna dignità alla sfida. I due contendenti si affrontano come in un dramma classico, secondo ruoli ben definiti e rituali condivisi.

All’interno di questa ritualità, il tennista deve anche rispettare una serie di norme corporee: non disturbare con gesti inutili, non buttare la racchetta, non rivolgersi al pubblico in modo provocatorio. Il corpo è strumento tecnico ma anche segnale culturale: ciò che trasmette va ben oltre il colpo giocato, e contribuisce a costruire l’immagine del giocatore come figura eroica, stoica, contenuta.

Questo è uno degli aspetti su cui si sofferma anche David Foster Wallace nel saggio Il tennis come esperienza religiosa, dove sottolinea che ciò che affascina del tennis, più di ogni altro sport, è l’intimità: due giocatori su un rettangolo bianco, immersi nel silenzio, separati eppure legati da una palla. È come osservare la mente nuda, in tempo reale.

Gli anti-eroi del tennis

Il tennis, dunque, non è solo azione fisica ma rappresentazione psichica, rituale silenzioso e profondamente teatrale. Queste regole, benché non ufficiali, sono fortemente interiorizzate. Infrangerle può portare all’isolamento, alle critiche negative degli spettatori o dei commentatori, come dimostrano i casi di tennisti noti per il loro temperamento sopra le righe, da John McEnroe a Nick Kyrgios. Tuttavia, proprio queste figure, che rompono il codice, diventano spesso drammaturgicamente efficaci, perché introducono il caos nella simmetria, il conflitto nel rituale. Sono gli “anti-eroi” del tennis, che mettono in discussione il galateo e, così facendo, rivelano il suo valore narrativo.

“Il viaggio del tennista” è fatto anche di questo: imparare a muoversi in un territorio dove i codici non sono scritti sui muri, ma negli sguardi. Dove il rispetto non è un obbligo, ma un’identità. Dove ogni gesto conta. La vera partita, spesso, comincia prima del primo punto.

Il tennis come metafora della vita: ogni partita è una storia

Manuel Sgarella
manuel.sgarella@varesenews.it

 

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Pubblicato il 05 Ottobre 2025
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