Glenn Gould: 55 anni fa, a Mosca
Come il pianista canadese cambiò la storia dell’interpretazione di un’intera nazione
Mosca, 12 maggio 1957: c’è chi a quattordici anni si è procurato un biglietto azzerando i propri risparmi. C’è chi un posto sicuro, in sala, ce l’ha: Boris Pasternak e Maria Iudina (la pianista preferita di Stalin e interprete fatata di Beethoven). C’è un giovanissimo di nome Lev Vlasenko che con piglio energico traduce dall’americano al russo. Infine, c’è il pubblico: fatto di insegnanti – alcuni se ne andranno perché offesi dall’interpretazione di Gould – e alunni. Nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca, il vocio di sottofondo fonde eccitazione a tensione: 500 anni di storia della musica scorrono sotto le dita di un pianista appena venticinquenne. Un pianista che lascia la politica al di fuori dei tasti. E che per l’occasione fa capire quanto Johann Sebastian Bach sia il padre di Alban Berg, Anton Webern e Ernst Krenek. Due viennesi e un autore di origini ceche: il Novecento di sperimentazione dodecafonica, che spesso ha abbinato contrappunto a disappunto, vince su tutto. Pregiudizi storici compresi.
La simmetria: è questa la lezione che Gould regala a Mosca. La simmetria di chi cerca il perfetto legame tra musica e vita. Tra suono e respiro. Il concerto al Conservatorio di Mosca assume un’importanza storica che va oltre lo spettro sonoro. In quel 1957, cinquantacinque anni fa, Glenn è il primo nord-americano che mette piede in Russia dopo la Seconda Guerra Mondiale. E’ forse il primo a dedicare il 90% dell’esibizione a tre autori che hanno saputo scombinare la tradizione per raggiungerla al cuore. E’ il primo a parlare di etica senza essere banalmente etico. E’ il primo a dettare legge non solo quando affronta il grande Bach ma anche quando, nonostante sia ancora un ragazzo, decide di istituzionalizzare la musica contemporanea. E di porla come punto di riferimento espressivo di un’epoca. È colui che fa dire a Sofia Moshevich: «Dalla visita di Gould, il modo di suonare Bach in Russia si è diviso in due periodi: prima di Gould e dopo Gould».
Ma è centrale, di quel concerto, la luminosità che Glenn ottiene dalla Sonata n. 1 di Berg: mai apertura fu più decisa. È una presentazione di stile, non solo d’effetto. È un ventaglio di ammirazione nel quale non c’è aperto contrasto, ma somma di piani emozionali. Ciò che Arnold Schoenberg spiegò in una sola riga: «Berg ha detto tutto ciò che doveva essere detto». E così fece Gould addensando il suo pensiero nelle Variazioni per pianoforte, op. 27, di Webern – un palpito, un singhiozzo, un’ansia accennata ma reiterata – e nella Sonata n. 3 op. 62 di Krenek. L’Allegretto piacevole, animato e flessibile anticipa l’Adagio dove il pianista canadese evidenzia il bilanciamento di un’opera nella quale si ritrova «l’agilità di Webern e la tremenda forza armonica di Berg». Una sonata, quella del compositore ceco, che Gould definiva «come una fra le migliori composizioni per pianoforte del XX secolo». Sostenuta ritmicamente, spavalda e introspettiva. Lacerante a tratti. Una spina nella carne, seppur articolata e ginnica. È questo l’impero di Gould. Questa valanga di armonie “bislacche” e contorte. Di contorni sonori che gravitano intorno alle note. Di segni che si aggrumono in un “supertema”, nei piano e forte, nei silenzi. E poi Bach: l’estasi e lo zenith. Per cambiare la storia. E noi stessi.
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