Accogliere non basta più
Dal 1994 lungo il Sempione opera una casa di accoglienza per minori, che negli ultimi anni ha visto fra i suoi ospiti soprattutto stranieri. Una presenza che rende necessarie nuove progettualità
Sbarcano in Italia con l’idea di lavorare. Guadagnare abbastanza e ritornare nella loro terra per mettere su un’attività. È questo il sogno dei migranti anche dei più piccoli. Quando i minori vengono intercettati alle frontiere, non scatta subito l’espulsione. Per loro si avvia la pratica dell’affidamento. Non esistono comunità particolari per gli stranieri, ma è un fatto che da tempo siano loro i principali ospiti delle case o comunità per i minori. E i modi di intervenire un po’ cambiano. È quello che capita alla comunità alloggio di Vergiate. Si chiama Casa Itaca e non poteva che essere gestita dalla cooperativa sociale Ulisse. La casa di accoglienza che esiste lungo il sempione dal 1994 è in questo momento al completo, come sempre. Sono ospitati nove minori. Hanno in media sedici anni e sono di origine albanese, marocchina, uno è rumeno e uno proviene dalla Sierra Leone ed è in attesa dell’asilo politico. "Le tipologie di ragazzi che ospitiamo sono civile e penali, dal 1997 sono aumentati gli stranieri fino a diventare la situazione tipo – dice Aurelio Raco, responsabile della comunità – gli italiani affidati sono per la maggior parte quelli allontanati dalle famiglie".
Non cambia l’obiettivo dell’intervento di recupero, ma le modalità in qualche modo si. "Il nostro obiettivo è l’autonomia della persona – lavoriamo sulla relazione e su progetti individualizzati, costruiti sui bisogni che i ragazzi esprimono, questi progetti si cocretizzano poi con l’inserimento scolastico e lavorativo". Il che prevde rapporti con il territorio, con le scuole e le istituzioni. Ma non funziona per tutti allo stesso modo. I ragazzi stranieri hanno infatti un permesso di soggiorno a solo scopo formativo e non possono lavorare. In pratica non possono realizzare l’obiettivo che si erano imposti raggiungendo il nostro paese. Questo diventa un motivo ulteriore di conflittualità con l’adulto-educatore, con la comunità e con lo stesso paese che nell’immaginario del giovane gli negano delle libertà. "Per un marocchino partecipare alle attività domestichhe o prendere una scopa in mano rappresenta uno sforzo notevole". Queste sono infatti le difficoltà in più nel lavorare con culture diverse, che richiede un lavoro a monte di mediazione culturale. A cui si vanno ad aggiungere elementi di conflittualità classici: lo scontro generazionale, pretese comuni dell’adolescenza (scarpa di marca e costosa) e la gestione oculata dei beni. È in questi momenti che Aurelio diventa spilorcio. Ma anche l’amico e il padre su cui sfogare tutte le rabbie e che assorbe tutti i fantasmi di questi ragazzi che hanno alle loro spalle esperienze travagliate. Ma in un’ora è un continuo Aurelio di qua e Aurelio di là. I cancelli di Casa Itaca sono aperti. I ragazzi entrano ed escono liberamente nel pomeriggio e per qualche ora la sera. I posti che frequentano sono i classici della socializzazione a quell’età: la piazzetta piuttosto che il campo di calcetto. Sono le situazioni in cui si sentono più a loro agio. Diverso è quando si organizzano le uscite in furgone, segno palese dell’appartenenza alla comunità, crea qualche problema ai ragazzi. In casa il lavoro educativo parte dalle gestione del quotidiano, che prevede la collaborazione nelle faccende domestiche e in cucina. Pare che alcuni siano molto bravi dietro i fornelli. "Cerchiamo di valorizzare le loro capacità – dice Aurelio – alcuni potrebbero fare i cuochi". "La difficoltà più grande è fare capire che la collaborazione non è un obbligo". Nella comunità vergiatese lavorano quattro educatori, una signora che si occupa della lavanderia e due volontari. Fondi dalla Regione? I contributi arrivano solo quando i bilanci vanno in perdita. Non è il caso di questa comunità che fa quadrare il bilancio con le rette mensili destinate al minore. Si tratta di risorse bastanti ad un livello di accoglienza primario e infatti nella casa non manca nulla di essenziale. Ma è insufficiente quando sono necessarie altre progettualità. "Occorre approfondire i percorsi pedagogici, con gli stranieri equivale a staccare dai canoni tradizionali dell’accoglienza, vuol dire mirare all’integrazione. Occorre integrare anche nel mercato del lavoro, inventando fette di mercato e creando cooperative miste di gestione". Ma questa per Raco non sembra essere l’ottica degli amministratori. L’iter che inizia con l’arrivo nella comunità, prevde un percorso scolastico e formativo, compiuto il diciottesimo anno di età scatta il rientro accompagnato in patria. E se il lavoro educativo non è riuscito a trasmettere che anche l’istruzuone è un valore, la permanenza nella comunità, diventa una parentesi e a volte il simbolo del fallimento. Diverso quando riescono a restare, lavorare, trovare un’abitazione. Allora la Casa diventa un posto in cui ritornare, per salutare Aurelio, gli altri educatori e gli ospiti del momento. |
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