Una città senza cultura è una città senza testa

Mentre la più squallida giunta del Dopoguerra vive i suoi tradimentini le sue vendettine i suoi attacchini a destra e a manca, nel silenzio quasi generale si consuma l’ennesima débacle culturale di una città completamente acefala, priva di qualsiasi larva d’idea, votata al suicidio politico, economico e culturale. Perfino un grand commis come Valcavi, uomo di potere e manovratore per anni dell’economia varesina, scuote l’ottuagenaria testa di fronte alla mancanza di istituti di credito a capitale locale, di imprese forti e imprenditori illuminati, di una programmazione culturale degna almeno del comune di Pizzighettone.

Sarebbe oltremodo penoso elencare le battaglie non perse, ma neppure combattute, dagli amministratori locali in campo culturale, ma lo facciamo per onore di cronaca: villa Panza e il Guggenheim, il teatrino di via Sacco (di fronte però, ce n’è uno molto più ludico), la gestione del teatro tenda, il naufragio di Amor di Libro, la tenda a ossigeno per il premio Chiara, retto ormai da un manipolo di valorosi, la vexata quaestio dell’ex cinema Rivoli, il caso Bertoni, il caso Guttuso.

Ecco, appunto, parliamo di Guttuso. Fino al 6 marzo alla Fondazione Mazzotta di Milano si potrà visitare una splendida mostra, quella della più ricca collezione guttusiana privata, guarda caso di un varesino, Francesco Pellin, industriale del salmone e amico personale del pittore. A Milano.

L’unica nota positiva di tutto ciò è che non avremo pubblicata nel quotidiano locale la solita fotografia inaugurale con il sindaco ridens e il suo assessore, pure lui di solito ridente, non in grado però di superare il maestro. Anzi consigliamo ai colleghi fotografi di preparare una sagoma pieghevole in grandezza naturale del sindaco ridens e portarsela appresso in convegni, inaugurazioni, pranzi di gala, tagli di nastri, consigli comunali: risparmio in pellicola e di ritocchi con photoshop in caso di scatti digitali.

Dopo aver dovuto come sempre prendere il treno per vedere qualcosa di interessante (80 dipinti e cinquanta disegni, realizzati da Guttuso tra il 1931 e il 1986) passiamo alle note dolentissime dei musei civici decapitati. Non che la signora Bernardini brillasse per numero di presenze negli uffici del Castello di Masnago, chi scrive ha impiegato tre mesi per avere un’intervista, ma quantomeno arginava le velleità galleristiche assessorili, sviluppatesi in mostre da psicodramma alla sala Veratti. Purtroppo per lei gli “accoppiamenti giudiziosi”, nonostante il bel catalogo, si sono trasformati in relazioni pericolose e forse i ritratti dei cari estinti di famiglie illustri, che pendono tuttora dalle pareti del Castello, le hanno portato un po’ di sfiga.

Se i responsabili di ciò che resta della cultura varesina si prendessero la briga (e qualche aereo) di andare a vedere come si gestisce un museo, scoprirebbero che a Torino, 4 e 5 febbraio, si parlerà di come raccontare una collezione, come visitare una sala, come insegnare alle guide a trasformare le informazioni su un quadro, una statua, un vaso Ming in un accattivante racconto. Tecniche di narrazione per avvicinare le opere d’arte al pubblico (si chiama Holden Art, organizza corsi su come animare le visite, www.scuolaholden.it) l’esatto contrario di quanto si è fatto finora a Varese, dove, una volta ingollata l’ultima tartina al finto caviale al vernissage, la mostra è abbandonata a se stessa, con visite guidate affidate a belle ragazze volonterose neolaureate, ma che non possiedono preparazione specifica ed esperienza per un lavoro così delicato.

Al Castello di Rivoli, per esempio, davanti a un’opera un cantastorie legge una fiaba scritta appositamente, a Dublino lo “storytelling” ripercorre le vicende del passato legate a questa o quell’esposizione, si narra al visitatore la storia della città.

Perché non invitare i pittori e gli scultori varesini a fare delle session e a raccontare la mostra in corso assieme alle guide? Perché non chiamare gli scrittori o i poeti locali (ce ne sono assessore e anche di bravi, ma sono quasi tutti via per la disperazione, vada a conoscerli, le pago la benzina) a parlare della loro esperienza artistica e a dare il loro parere critico sull’esposizione?

Dice Peter Howard, esperto internazionale di gestione museale: «Le guide mostrano ai visitatori l’architettura, le opere d’arte, ignorano le vicende, i riti, le musiche che si sono suonate nel tempo e nel luogo interessato. I musei non sono democratici, bisogna dare al pubblico la possibilità di farsi un’idea propria».
Perché allora non interpellare una volta tanto i cittadini, chiedendo loro che mostre vorrebbero veder allestite avvicinando, vivaddio, il museo alla gente?

Invece le logiche di potere imporranno la solita scelta, quindi un nuovo direttore, – voluto da questo o da quello per non scontentare questa e quell’altra parte politica, potentato o lobby economica, universitaria o ospedaliera – di solito perfettamente ignorante in materia ma con tanta buona volontà. Manovrabile e asservibile, che porti una sempre più forte ventata celtica in città e consenta alle mogli dei primari di sfoggiare abiti in tinta con la copertina dei cataloghi.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 27 Gennaio 2005
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