L’ultima tappa, cosa ci portiamo a casa

Diario degli ultimi due giorni di viaggio dei ragazzi di Stoà (14 e 15 agosto) da Abud a Tel Aviv

Ad Abud siamo ospiti di una piccola parrocchia cristiana cattolica; il parroco, padre Youssef, ci prepara una cena deliziosa, con un’accoglienza che non ci aspettavamo e la cui gratuità ci spiazza. Abud è un paese a pochi chilometri da Tel Aviv, dove vivono 2000 persone, 1000 musulmani e 1000 cristiani, divisi a metà tra 500 cattolici e 500 ortodossi.
Siamo ormai agli sgoccioli del nostro pellegrinaggio e, come a riguardare il percorso fatto, andiamo a Tel Megiddo, un luogo denso di storia con reperti archeologici per più di 20 strati, antica posizione strategica sulla Via del Mare, dove si svolsero numerose battaglie narrate nella Bibbia e dove, come è narrato nell’Apocalisse, si svolgerà Armageddon, la battaglia finale tra il bene e il male.

Ammiriamo il panorama che ci circonda, la piana di Esdralon, mentre sediamo in uno dei pochi punti in ombra e don Alberto ci narra la storia di Giosia, il Re Santo dell’Antico Testamento, che riportò Adonai al centro del culto del suo popolo e che morì ucciso da una freccia degli egiziani proprio in questi luoghi, mentre cercava di difendere la sua terra e la sua fede. Guardiamo a Tel Megiddo come al Calvario, dove anche Gesù, il Re Santo, muore. Male a Megiddo e male al Calvario. Perché proprio in questa terra "santa" c’è così tanto male? Leggiamo un passo dal salmo 74 dove si narra che il giusto vaga per Gerusalemme, vede gli empi trionfare e non capisce e si chiede cosa fare. Poi entra nel tempio e comprende che Dio è con lui. Megiddo e il Calvario sono due occasioni in cui il popolo si accorge che – anche se Dio non si vede – c’è. 

Ripartiamo alla volta di Tel Aviv, che significa "collina della primavera", la città giovane israeliana sul mar Mediterraneo, fondata all’inizio del 1900. Ci gustiamo questa città, chi nel suo mare e nelle sue spiagge, chi passeggiando per le vie principali e ammirandone lo stile Bauhaus, chi per il suo mercato.  Al nostro rientro ad Abud incontriamo i giovani della parrocchia di padre Youssef: ci parlano di cosa significhi essere giovani lì, essere cristiani ed essere palestinesi. Ci mostrano un video sulla loro vita, la loro storia e la storia del loro paese negli ultimi anni, dopo la costruzione del muro. Poi tante chiacchiere informali, risate, domande, la chitarra e qualche canto insieme, l’oboe immancabile di George, poi preghiamo insieme. Un volto di Chiesa indimenticabile.

Con lo sguardo rivolto al mare, tra gli scavi archeologici di Cesarea Marittima, celebriamo

l’ultima Messa del nostro pellegrinaggio. Da questo porto partivano i primi cristiani per andare verso Occidente, il più delle volte in catene, come San Paolo, per poi morire martiri nel portare il Vangelo per il mondo. Da qui partivano e senza queste partenze noi oggi non saremmo cristiani. Dopo il Vangelo, ognuno di noi ricorda i momenti intensi vissuti in questa esperienza, i quali arricchiranno la quotidianità lasciata a casa prima della partenza. Ognuno di noi condivide le proprie sensazioni ed emozioni che richiuderà nella propria valigia.

“Mi porto a casa un Gesù molto umano che passeggia per le vie di Nazareth e tra le botteghe di Tziporis.
Mi porto a casa una Madonna che accetta l’annuncio dell’Angelo e si affida completamente al Signore pur avendo mille ripensamenti e paure.
Mi porto a casa le tortuosità del fiume Giordano, identificative delle tortuosità della mia vita, dei miei dubbi, dei miei alti e bassi, proprio come l’immergersi nella terra e il riaffiorare in superficie delle acque di questo fiume.
Mi porto a casa i consigli su come ricreare una relazione. Ricostruire un rapporto significa reimpostarlo daccapo, innestandovi sempre qualcosa di nuovo.
Mi porto a casa la resurrezione di un popolo.
Mi porto a casa l’ospitalità e l’accoglienza dell’altro popolo, lontano anni luce dalla propria resurrezione.
Mi porto a casa la mancanza di una speranza di pace, ma non la mancanza di una fede.
Mi porto a casa un gruppo di persone splendido, una sensazione di conoscerli da sempre. Di conoscerli davvero, non solo perché devo dirlo alla sicurezza di ELAL.
Mi porto a casa le chiacchiere con persone che mi accolgono, mi riempiono e non mi fanno sentire vuoto.
Mi porto a casa due preti strani. Un folle incosciente in cui mi riconosco e un ragazzo dalla devastante gentilezza”.
A tutti e a ciascuno il nostro Grazie! Toda! Shukran!
E a Gerusalemme, alla Terra del Santo… Arrivederci! Shalom! Marhaba!

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 21 Agosto 2013
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