Forte, sanguigno, generoso: addio grande Vinicio
Ettore Pagani, decano del giornalismo sportivo, traccia un ricordo di Nesti, campione dell'Ignis del primo scudetto. «Il padre diceva di lui: "Gl'è di sangue": ma sapeva anche fare grandi canestri»
«Lui gl’è di sangue». Ha l’accento toscano il modo più rapido, preciso e colorato per descrivere Vinicio Nesti, uno dei primi campioni della Ignis di basket scomparso ieri (9 aprile) all’età di 83 anni. La breve frase usciva spesso dalle labbra di chi lo conosceva meglio di tutti, il padre di Nesti, livornese che in quei primi anni Sessanta arrivava spesso a Varese per seguire le partite del figlio, fondamentale aggiunta alla squadra di Borghi per conquistare il primo scudetto nella storia gialloblu, quello del 1961.
Quelle di papà Nesti non erano solo visite legate allo sport: lo svela uno dei decani del nostro giornalismo, Ettore Pagani, che allora seguiva da vicino le gesta della squadra allenata da Rico Garbosi. «Vinicio allora non era sposato, quindi dopo le partite salutava il padre e gli lasciava pacchetti di banconote per contribuire alle spese della famiglia. Borghi pagava bene, lui poteva dare una bella mano per sostenere i genitori».
Nesti arrivò a Varese quasi trentenne, ma il suo modo di giocare – sanguigno ma non solo: era un ottimo cestista – era già ben noto ai giocatori della Ignis che se lo erano trovato contro più volte, prima con la maglia della Libertas Livorno e poi con quella dell’Assi Viareggio. «Quella in Versilia – ricorda ancora Pagani – era una trasferta bastarda per tutti, perché i toscani menavano. E più di tutti menava Nesti, che al gioco sporco però univa anche canestri di classe». Proprio in un match a Viareggio accadde qualcosa che oggi chiameremmo con un termine americano, trash talking: provocazioni a parole per innervosire l’avversario. «La Ignis aveva in panchina, tra gli altri, Virginio Zucchi il quale visto il gioco sporco di Nesti cominciò a stuzzicarlo con frasi piuttosto pesanti, ogni volta che Vinicio passava davanti alla panchina di Varese. Lui per un po’ non reagì ma poi, sicuro di non essere visto dagli arbitri, avvicinò Zucchi e lo stese con uno sberlone. Anche per quello Nesti attendeva con particolare timore la partita di ritorno alla palestra di via XXV Aprile, e infatti sul primo pallone ricevuto venne atterrato da tre giocatori della Ignis che se l’erano legata al dito».
Nesti giocò solo tre stagioni nella Pallacanestro Varese, poi per qualche mese fece anche l’allenatore della prima squadra e vestì anche la maglia della Robur. Prima di buttarsi nel campo immobiliare («fu un mastino anche lì: era molto bravo anche sul lavoro» spiega Pagani) terminò la carriera a canestro con un altro episodio clamoroso e di grande temperamento. «Allenava l’Aceti Azzate in Serie D – conclude Pagani – finì per essere squalificato a vita perché al termine di una partita prese un arbitro per un orecchio e lo accompagnò negli spogliatoi senza mai mollare la presa, urlandogli "Somaro!" a più riprese».
Del resto, papà Nesti, aveva avvisato tutti: «Il mi’ Vinicio gli è di sangue».
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