Lonza in gremolada con risotto giallo
Seconda ricetta suggerita da Pierre Ley, autore dell'ebook di ricette che porta lo stesso nome di questa rubrica
Seconda ricetta suggerita in questa nuova rubrica da Pierre Ley, anche autore dell’ebook di ricette che porta lo stesso nome di questa rubrica. Ed ecco la curiosa ricetta per l’ultimo fine settimana d’inverno:
Alternativa al più classico ossobuco, ma non meno antica, questa lonza servita con un tradizionale risotto giallo costituisce una dignitosa e scenografica soluzione per un pranzo domenicale in famiglia. La gremolada, monumento della cucina meneghina, irrinunciabile elemento dell’ossobuco alla milanese, ha origine nel secolo dei lumi.
Verso la fine del Settecento, anche la cucina si libera da quella sudditanza intellettuale ad un polveroso status quo delle idee. Si affermano idee innovative, così come l’uso di alternative economiche e popolari alle costose e rare spezie, simbolo di un sistema opprimente di caste sociali ed intellettuali. La buccia di limone è la risposta “illuminista” del genio culinario italico al vecchio ordinamento della dispensa. In particolare, a Milano la si associa ben presto ad altri odori plebei ma di indubbio valore, quali il prezzemolo e l’aglio. Nasce così la nostra gremolada, dal milanese “ridotto in grani”, inizialmente utilizzata per insaporire coniglio e scaloppine varie, come queste fettine di lonza della ricetta odierna.
Per vederla “atterrare” sull’ossobuco occorre aspettare almeno la fine dell’Ottocento, intorno al 1890. Tale datazione grazie a due testi fondamentali per l’epoca, “La vera cucina lombarda” edito nel 1890 e in cui non vi è menzione del nostro, ed il notissimo “La Scienza in Cucina” di Pellegrino Artusi, del 1891, in cui l’ossobuco figura invece degnamente. Sulla presenza o meno del pomodoro si è disquisito a lungo e animatamente, senza peraltro giungere a conclusione dirimente. Le correnti più in voga vogliono l’ossobuco storico scevro di tale ingrediente, ancorché l’uso del pomodoro si consolidò nel corso dell’Ottocento.
La lonza di oggi ne fa ampio uso, anche in vista di un possibile riciclo della puccia a guisa di sugo per la pasta. Appassita mezza cipolla in olio e burro, insieme a un piccolo battuto di pancetta dolce, vi si rosolino le fettine di lonza o di lombata, già infarinate, salate e pepate. Bagnare quindi con vino bianco a sfumare e aggiungere mezza scatola di pelati. Si completi con un buon mestolo di brodo e si lasci quindi “pipppiare” per un tempo indefinito, ma di certo non breve. A fine cottura, e a fiamma spenta, si insaporisca con la gremolada classica, fatta di solo prezzemolo, aglio e bucce di limone finemente tritati. Per il servizio si impiatti un risotto giallo regolamentare, mantecato a burro e parmigiano, e ci si sistemino le fettine di lonza, coprendo, ma non troppo con il sugo.
Per realizzare il risotto sarà sufficiente fare appassire un piccolo battuto di cipolla in olio e burro, badando a non farle prendere colore. Il midollo è oramai in disuso ma se si ha lo si aggiunga adesso e lo si lasci “squagliare”. Si aggiunga quindi il riso, carnaroli, vialone o arborio, e una volta “tostato”, cioè quando i chicchi sono diventati leggermente perlati e traslucidi, si sfumi con un buon bicchiere di vino bianco secco. A questo punto si tira a cottura il riso versando il brodo, di carne e di realizzazione domestica, un paio di mestoli alla volta, senza mai smettere di girarlo. Verso fine cottura si aggiungerà lo zafferano in polvere, diluito in un mestolo di brodo. Non si lesini sulla quantità, il colore dovrà tendere all’oro zecchino più che alla camonilla annacquata.
A cottura ultimata, rigorosamente all’onda e sempre confermata da un assaggio, a fiamma spenta la fondamentale operazione della mantecatura con generosi “tocchi” di burro e altrettanto generose e soffici coltri di parmigiano o grana. Si lasci assestare il risotto per un paio di minuti prima di impiattarlo.
Nel bicchiere consigliata una Bonarda a ulteriore sigillo di regionalità. L’abbondante sugo di avanzo si potrà usare il giorno successivo, a condimento glorioso di una pasta, com’è invece d’uso nella cucina partenopea. Contaminazioni storiche oltre che geografiche e culturali. La cucina è una materia meravigliosa, un cimento dell’intelletto con il pieno, fisico coinvolgimento dei sensi. Peccato non venga insegnata a scuola.
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