Da Varese alla Bosnia, per non dimenticare la storia e ritrovare i vecchi amici

Donata Manciani è una volontaria che da 25 anni continua a seguire la popolazione dei Balcani, anche dopo la fine del conflitto in ex Jugoslavia

Generico 2018

La storia, le esperienze, il vissuto e il cambiamento sono momenti che segnano la vita di ognuno, soprattutto in periodi di grande difficoltà come la guerra, e solo chi li ha vissuti da vicino può davvero
comprendere queste sensazioni.

Donata Manciani è attiva in campo umanitario e sociale da diversi anni e dal ’93 ha deciso di seguire da vicino le vite di chi ha dovuto fare esperienza sulla propria pelle, del conflitto bellico che ha coinvolto l’ex Jugoslavia.
Dopo tutto questo tempo, insieme al marito e ad alcuni amici, continua a tornare in quei luoghi dove ha stabilito dei legami con le persone che, nonostante tutto, non si sono mai allontanate dalla propria terra.

Ha un rapporto ancora molto stretto con il territorio e con le persone che lo abitano. Da quanto tempo è impegnata con questa causa?
«Nel ’93 è nato il gruppo “Un sorriso per la Bosnia” che, fino al 2002, ci ha permesso di andare in un campo profughi vicino Lubiana. Da allora siamo sempre andati lì abbastanza regolarmente, circa due volte al mese, fino a quando hanno chiuso il campo. Da quel momento, alcuni di loro hanno sentito l’esigenza di andarsene, altri sono rimasti nella propria terra. Noi torniamo ad aiutarli, il più possibile. Siamo tornati poco tempo fa dal nostro ultimo viaggio».

Come nacque l’idea dell’associazione?
«C’era la guerra e quarantacinque giovani ragazzi avevano voglia di fare qualcosa. Hanno deciso di partire per la Slovenia, portando un aiuto concreto a quelle persone che avevano il minimo, per cercare di portare vita normale nel campo. In breve tempo ci siamo uniti al gruppo e siamo anche riusciti a far venire in Italia alcuni ragazzi, per allontanarli temporaneamente dal clima bellicoso e fargli imparare la lingua. “Un sorriso per la Bosnia” ora non esiste più ma ha lasciato spazio a Ipsia, l’Istituto Pace Sviluppo e Innovazione Acli, che continua perseguirne gli obiettivi».

In che modo siete riusciti a portare il vostro aiuto sul territorio?
«Abbiamo voluto confermare la nostra vicinanza ristrutturando una scuola materna in zona Sarajevo dove è stato rifatto l’impianto di riscaldamento, anche se nel 2014 hanno dovuto fronteggiare un’alluvione che ha distrutto il nostro operato. Nel frattempo abbiamo allestito dei lettini per la dialisi in un ospedale molto vicino alla Croazia».

Come vivono oggi le persone, dopo tutto quello che hanno visto? E quanto si è ripreso il paese in questi anni?
«Chi ha una casa di proprietà sta discretamente bene. Vivono di cibi poveri, che spesso coltivano da soli. Il problema sono gli extra e le cure che, al pari di uno stipendio molto basso, costano come da noi. Una famiglia che sta male non può permettersi in alcun modo di comprare le medicine».

Il suo impegno sociale si estende ad altre associazioni e segue numerose iniziative. Ce ne sono altre impegnate in questo ambito?
«Insieme a un’altra associazione, “L’albero di Antonia”, portiamo materiale, come centrini e borse, alle donne che hanno subito violenze davanti alla guerra. Cerchiamo di portare un’aiuto simbolico perché è l’unica cosa che possiamo fare. Purtroppo, per far rientrare le persone dall’estero per testimoniare servono molti soldi, senza contare il danno morale e psicologico che hanno dovuto subire tra vergogna, ripudio e l’aver rinunciato ad avere figli».

Durante questi viaggi, ha visto qualcosa che le ha lasciato un segno particolare che meglio le ha fatto comprendere la valenza di questo triste momento storico?
«Siamo stati otto volte a Srebrenica dove vengono sepolti i musulmani uccisi durante il genocidio del ’95. In occasione dell’anniversario, l’11 luglio di ogni anno seppelliscono alcune di queste persone alla presenza dei parenti, recuperandoli dalle fosse comuni. I centri di identificazione lavorano intensamente per il recupero poiché la legge impone che finché non si identifica il 70% del corpo, la persona non può essere riconosciuta ufficialmente».

Parlando del suo ultimo viaggio, oltre ad essersi ricongiunta con i suoi vecchi amici, ha avuto modo di visitare qualcosa che l’ha colpita particolarmente?
«Siamo appena tornati da Tuzla, seconda città della Bosnia, e abbiamo visitato il monumento dedicato ai cinquantaquattro ragazzi dell’eccidio della primavera del ’95, dove fu lanciata una granata contro dei ragazzi universitari. Oltre alla crudeltà del gesto, la vicenda colpì per la volontà di radunare le vittime in un unico cimitero, senza distinzione tra cristiani ortodossi, cattolici, musulmani o laici. Ora è stata istituita la “casa della pace” con i pavimenti ricavati da ceramiche rotte adibite a mosaici, usata per convegni e laboratori con i ragazzi».

di
Pubblicato il 26 Novembre 2018
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