Bergonzoni a Varese: “Vi ordino di pensare”

L’attore bolognese lungamente applaudito al teatro Openjobmetis per la stagione Gocce diretta da Adriano Gallina. Tra giochi di parole e storie sorprendenti, anche tanta attualità, Regeni, Cucchi, i migranti, la razza (che è solo un pesce)

bergonzoni

Vedi Bergonzoni e poi vivi. Di più, più intensamente. Oppure muori. Chissà quale delle due immagini preferirebbe questo sommo giocoliere del linguaggio che in ottanta minuti – venerdì 3 maggio al teatro Openjobmetis di Varese per la stagione Gocce diretta da Adriano Gallina – ha mitragliato il pubblico di parole, verbi, azioni, concetti, idee risvegliandolo dal torpore quotidiano.

Ottanta minuti senza un attimo di tregua: ogni suono e ogni pensiero concatenato all’altro per similitudini o antitesi, alte o basse, piene di significato o quasi «non sense», snocciolate come i grani di un rosario, laico, comico, intelligente, ma pur sempre un rosario. Una preghiera, un appello che nel corso dello spettacolo diventa un ordine: ad essere attenti, a non assopirsi mai, a esercitare la mente. Un antidoto all’assuefazione quotidiana che dovrebbe essere prescritto e assunto più spesso.

Dopo «Urge» e «Nessi», anche in «Trascendi e sali» – di cui firma il testo e con Riccardo Ridolfi la regia – Alessandro Bergonzoni dà una prova eccezionale dell’arte per cui è famoso: quella di ribaltare il senso delle parole, delle frasi, dei modi di dire, rivelandone aspetti inediti e invitando a guardare le cose da un altro punto di vista, che non è sempre e per forza colto ma non è mai banale, che a volte strappa una risata pura e semplice, come quella di alcuni bambini (lodevoli, figli di genitori coraggiosi) presenti tra il pubblico di Varese.

Lo spettacolo si apre con l’attore bolognese issato in cima a una «Pensostruttura», dalla quale osserva il mondo e vede studenti ottusi girare angoli e diventare acuti, vede cani da valanga che inseguono gatti delle nevi, vede la chiave del tutto e si chiede, poiché un uomo è già sceso un po’ di anni fa, se non sia meglio trasalire e salutare. Ma poi scende. Interagisce con i «semi nascosti», gli spettatori invisibili che immagina intorno a sé, controlla sul suo spartito tutti quelli che non hanno mai pronunciato la parola «gamete», eccetera eccetera. E racconta la storia di Chi Mai che vive in tante domande ma anche nell’Asia centrale, o quella esilarante di Mosè, Moser, Noè e il nuovo ciclo della storia.

Poi arriva il momento di qualche affondo di cronaca. Senza prendere posizioni politiche esplicite e senza predicare, sempre legando il serio e il faceto, Bergonzoni cita i migranti, i vecchi e i bambini, le telecamere negli asili, le torture d’Egitto, Regeni e Cucchi (i cui nomi sono solo ripetuti come in un mantra), la razza che è solo un pesce, le trasmissioni tv sempre più al ribasso, la pazzia di accontentarsi. Ma quello che dice, anzi che ordina, è che ciascuno di noi deve vivere e capire il presente, formulare il proprio pensiero ed esercitarlo.

Alla fine l’attore si nasconde dietro una grande striscia rossa orizzontale in fondo al palco, da cui fuoriescono solo i piedi e una voce potente e perentoria, che elenca le cose perdute per le quali chiede un riscatto: sono la dignità, le occasioni, i limiti e la responsabilità. Per riaverle bisognerà fare molto, anche organizzare corsi di nuoto per stranieri e, nel dubbio se aiutarli a casa nostra o a casa loro, portarli intanto al ristorante, perché siamo nell’epoca del risarcimento.

Lunghi applausi e numerosi bis, tra i quali un magistrale pezzo in grammelot, tecnica di cui era maestro Dario Fo, in cui Bergonzoni senza dire nemmeno una parola compiuta fa un discorso in cui parla tutte le lingue del mondo contemporaneo. E con questo si congeda, chiudendo con un insegnamento materno: elabora il lutto, ma elabora tutto.

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Pubblicato il 04 Maggio 2019
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