La rete è una grande fabbrica che divora la nostra libertà

Il sociologo Lelio Demichelis, professore dell'Università degli Studi dell'Insubria, è l'autore del saggio "La grande alienazione" (Jaca Book). «Grazie alla tecnica nessuno si sente alienato e nessuno si percepisce tale. Ma l'alienazione è più grande di prima»

Università varie

La convinzione che con l’avvento delle nuove tecnologie digitali la classe operaia possa andare finalmente in paradiso, senza aspettare quota cento, di questi tempi è molto diffusa. Com’è altrettanto condivisa l’idea che la distanza tra colletti bianchi e tute blu sia di fatto colmata e che la figura del lavoratore alienato debba lasciare il posto al lavoratore realizzato grazie  all’autoimprenditorialità in grado di far emergere la spinta libertaria e creativa che contraddistingue l’essere umano.

Il supporto ideologico a questa narrazione è fornito in parte dal neoliberalismo che da trent’anni a questa parte ha modellato le democrazie occidentali, nei cui confronti però da tempo alcuni sociologi hanno aperto un fronte molto critico. Uno di questi è Lelio Demichelis, professore di sociologia economica dell’Università degli studi dell’Insubria, che nel suo nuovo libro, “La grande alienazione” (Jaca Book), smonta pezzo a pezzo la narrazione della nuova economia.

Professore, che differenza c’è tra vecchia e nuova alienazione?
«Luciano Gallino, negli ultimi anni, si chiedeva perché non si parlasse più di alienazione. Il fatto che non ne parla il sindacato e tantomeno la sinistra non vuol dire certo che sia scomparsa. È stata ben mascherata dallo stesso sistema che la produce: la grande alienazione è generata dall’incontro tra neoliberalismo e tecnica. Se nel secolo scorso l’operaio della Fiat era consapevole della sua alienazione oggi questa consapevolezza non c’è più a causa del dominio del pensiero neoliberale che da trent’anni pervade l’occidente. L’icona di questo pensiero è Margaret Thatcher secondo cui la società non esiste, ma esistono solo gli individui. Quindi tutto si è giocato sulla liberazione dell’individuo da quei lacci che lo tengono costretto. In quest’ottica l’individuo deve essere libero di fare tutto ciò che vuole, autorealizzandosi ed entrando in competizione con gli altri. Il pensiero neoliberale si afferma come portatore di una nuova libertà nel momento in cui si è iniziato a smantellare lo stato sociale, cioè quella rete di protezione cha aiutava le persone in caso di caduta. È prevalsa dunque l’idea di un individuo  schiacciato totalmente sulla dimensione economica e narcisistica. Nessuno ti chiede di essere te stesso, bensì di essere imprenditore di te stesso. Più followers hai, più valore hai».

È indubbio però che la tecnica ha cambiato profondamente il sistema produttivo-industriale tradizionale.
«Il sistema industriale si fonda sulla individualizzazione e sulla suddivisione del lavoro. Per fare uno spillo divido il lavoro in 18 mansioni diverse. Allo stesso tempo dopo averlo suddiviso devo mettere insieme tutti i pezzi e per questo ho bisogno della catena di montaggio che alla fine mi produca lo spillo. Oggi il meccanismo della suddivisione, ricomposizione, totalizzazione e integrazione è realizzata dalla rete. Non ho più bisogno della vecchia fabbrica fordista ma posso organizzare il lavoro della mia impresa esternalizzando tutta una serie di competenze, conoscenze, attività e prestazioni grazie alla rete che mette in connessione tutto ciò che serve per produrre. Insomma, la rete è una grande fabbrica».

Gli algoritmi che generano le piattaforme informatiche mostrano un’efficienza sorprendente e rispondono ai bisogni delle persone. Bisognerebbe riconoscere la loro natura di bene pubblico? 
«Il grande inganno della rete è che tutto appare come gratuito, ma così non è. Pensiamo al concetto di condivisione che è antichissimo. Il nostro condividere, per le imprese che controllano la rete, significa cedere gratuitamente tutti i nostri dati. Ogni volta che accendiamo il pc o lo smartphone, anche se dormiamo, noi forniamo dati che permettono alle piattaforme di profilare in modo dettagliato ognuno di noi. Il vecchio panopticon a me sembra che si stia realizzando in questa fase storica proprio grazie alla rete e noi non ce ne rendiamo conto. Quando la rete ci dà un suggerimento per andare a comprare un prodotto in un negozio vicino al quale noi stiamo passando, siamo tutti contenti per il suggerimento della app, senza renderci conto che ci stiamo alienando da noi stessi cedendo ad un soggetto privato parte della nostra vita. Attraverso gli algoritmi predittivi noi deleghiamo sempre di più ogni nostra decisione: cosa fare, dove farlo, come farlo e con chi farlo. È ben diverso dalla vecchia pubblicità, perché l’algoritmo si rivolge al singolo individuo con un messaggio ritagliato sulla sua profilazione».

Il pericolo che corriamo è legato alla delega che noi diamo alla rete o al mancato controllo della stessa?
«A entrambi. Se la mia vita dipende da una app, significa che sto cedendo una parte della mia libertà, tra l’altro a qualcosa che io non controllo. L’aspetto inquietante è che spesso anche chi progetta un algoritmo non sa esattamente come poi si comporterà. L’idea dell’infallibilità dell’algoritmo è un’altra percezione sbagliata che conduce verso un’alienazione totale dell’individuo. L’algoritmo perfetto non esiste ancora però noi ci fidiamo lo stesso, il fatto che il 60% degli scambi finanziari avviene attraverso un algoritmo ci dovrebbe far pensare molto».

Come se ne esce?
«Non lo so. Nel Novecento c’erano un sindacato, una fabbrica e un imprenditore che si confrontavano. Se il lavoratore aveva un problema, prima andava dal sindacato, poi all’ufficio del personale e alla fine si discuteva e si contrattava con l’imprenditore che aveva una faccia. L’algoritmo dov’è? Chi è? Contro chi sciopero? Questo è il capitalismo delle piattaforme informatiche che non ha più bisogno delle vecchie fabbriche. Uber non ha dipendenti, non possiede le auto dei suoi autisti. Uber non ha niente. Ha solo una piattaforma attraverso cui gestisce il lavoro di milioni di persone. Forse per uscirne bisognerebbe iniziare dal linguaggio e dalla comunicazione».

È una grande sfida, considerato che la narrazione della rete e dei social funziona benissimo.
«La capacità mediatica della tecnica e del neoliberalismo è potentissima. Puntare sull’individualità ha creato un nuovo immaginario collettivo: attraverso la rete posso realizzare ciò che voglio. In realtà non sono libero ma molto ben integrato all’interno di un sistema. I totalitarismi del ‘900 integravano ciascuno nella grande massa e l’individuo scompariva. Oggi il sistema valorizza l’individuo solo se omologato in qualcosa di più grande. Il paradosso è che la rete ti individualizza molto isolandoti dagli altri, ma al contempo ti offre i social, le comunità, il mondo della condivisione. A questo si deve aggiungere che la narrazione della tecnica di per sè è molto fascinosa».

Che cosa possono fare l’università e il mondo della scuola più in generale?
«Noi viviamo in un sistema dove sempre più conta la competenza rispetto alla conoscenza. Stiamo costruendo giovani che debbono avere sempre più competenze per fare cose. Dal mio punto di vista questo non basta più. Manca la capacità critica per analizzare a cosa servono queste competenze. Compito dell’università è generare pensiero critico, o meglio mettere in grado gli studenti di fare analisi dei processi per poterli governare. Sia neoliberalismo che tecnica ci dicono che dobbiamo adattarci al cambiamento. L’adattamento però è una negazione del liberalismo perché l’individuo che si adatta non è più libero, gli uomini sono fatti per creare il loro ambiente sulla base di una riflessione, di un’analisi. L’idea di doversi adattare la trovo di una povertà esistenziale spaventosa».

Quindi l’unica via è riportare la narrazione di questo tempo nello spazio sacro della libertà dell’uomo.
«Ritorniamo a Luciano Gallino: occorre un pensiero critico forte in grado di analizzare i processi che ci contengono. La grande retorica dell’autoimprenditorialità si basa su un paradosso in quanto l’unica fonte di identificazione delle persone è l’impresa per cui lavoro o la startup che ho fondato. Non c’è spazio per la libertà che il sistema apparentemente mi offre. La piattaforma non è mia, io sono solo integrato nel meccanismo. In questo sistema nessuno è il boss di se stesso, come recitava il titolo di un famoso magazine di finanza a proposito dell’avvento di Uber. Tu sei della piattaforma e come tale sei alienato. Un tempo c’erano i terzisti, imprenditori ma solo sul piano formale perché di fatto avevano un committente che decideva tutto per loro: materia prima, ordini, tempi di lavorazione e consegna. Lavoravano dodici ore al giorno padre, madre e figlio e non erano liberi di decidere un bel nulla. In tale contesto l’alienazione non può che aumentare: senza responsabilità di scelta non ci può essere libertà. Novalis diceva: l’uomo per pigrizia desidera un puro meccanismo o una pura magia. Esattamente ciò che oggi rappresenta la rete».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 09 Luglio 2019
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