A contatto con i pazienti anziani, il tempo ha triplicato il proprio valore

"G" lavora in una RSA e racconta le emozioni che l'hanno coinvolta negli ultimi mesi. "Ho avuto il privilegio di fare la videochiamate: mi sono sentita parte di una grande famiglia" (foto di repertorio)

Cuasso al Monte - Reportage dal reparto Covid - foto di Maurizio Borserini

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Di seguito la storia di “G”.

Mentre scrivo e racconto “G” durante l’emergenza sanitaria causata dall’epidemia Coronavirus, i miei occhi si riempiono di lacrime. Diverse sono le emozioni con cui mi sono scontrata, con cui ho convissuto e che ho cercato… Forse, non avevo mai provato con una tale intensità le stesse emozioni.

Nel mio lavoro – all’interno di una RSA che preferisco non nominare – si ascoltano le persone che raccontano la loro vita, le loro famiglie, le loro difficoltà, le loro vittorie, le loro sconfitte, i loro successi, i loro sogni e desideri, la loro sofferenza. Empaticamente, si ascolta, si supporta e si rincuora e, insieme, si cercano gli strumenti, insiti in ognuno di loro, per ritrovare un nuovo equilibrio mentale e il benessere psico-emotivo. Con il Covid-19 molte cose hanno avuto un’impronta differente, per certi versi nuove: basti pensare che, per parlare con una persona è necessario mantenere la distanza di almeno un metro e utilizzare i dispositivi di sicurezza che nella necessità prima, di proteggerci gli uni dagli altri, creano indubbiamente e volutamente una distanza difficile da gestire.

Gli sguardi dei nostri residenti, sono tutto ciò che resta del “non verbale” e, senza ombra di dubbio, mi hanno raccontato molto più delle loro parole. L’intensità del loro sguardo è amplificato e diviene profondo e sincero, ha un potere altissimo e, inaspettatamente, la parola, può addirittura divenire superflua, e ciò che era un semplice guardarsi, si trasforma in un discorso articolato e infinitamente più emozionante e coinvolgente.

I nostri residenti, lontani da figli, nipoti, mogli e mariti, vivono l’isolamento, la solitudine e la monotonia di tante giornate tutte uguali all’interno della propria stanza. È palpabile la paura di molti di loro, l’angoscia di morire da soli, il terrore di non vedere i propri cari e di non poter più godere dei calorosi abbracci. Solo noi operatori, professionisti sensibili, ma non familiari, abbiamo qualche volta cambiato quella condizione: un po’ di rispettosa ironia, una carezza, qualche parola di dolcezza e di comprensione, un ascolto attento e senza tempo; l’orologio non lo guardo più quando sono nella stanza con loro, ho come la sensazione che gli mancherei di rispetto nel fare un tale gesto.

Da sempre si dice che il tempo è prezioso, ma quello passato con alcuni di loro ne ha triplicato il valore. E per qualche attimo, si diventa figlio, nipote, moglie o marito, se questo può regalare a loro attimi di serenità e spensieratezza. La stessa che posso provare io, ogni sera nel tornare a casa e ritrovando il sorriso dei miei cari, di chi mi ama.

Ho avuto il compito e… il privilegio di fare le videochiamate: il tablet è diventato lo strumento per ricostituire alcuni rapporti parentali, riaccenderli, ravvivarli e arricchirli di rinnovato amore, coraggio e fiducia. Il tablet è diventato il mezzo nuovo, con cui posso sostenere e supportare psicologicamente le parti, parenti e residenti. All’inizio provavo un certo imbarazzo a fare le videochiamate. Era come entrare in una casa senza essere stati invitati e assistere all’intimità familiare. Ma dopo poco tempo, forse con qualcuno, già dalla seconda videochiamata, mi sentivo a mio agio: loro, i parenti, mi hanno fatto sentire così, mi hanno fatto “sentire a casa”, mi hanno accolto nei loro intimi discorsi, in faccende personali, mi hanno coinvolto come fossi “uno di famiglia”, mi hanno chiesto aiuto, accogliendo l’opportunità datagli senza inibizione e senza indugio.

Sono meravigliosi quei sorrisi, che anche dietro alla mascherina sono visibili… visibili dal cuore perché esso stesso li avverte… Ogni volta riconoscono, anche a più riprese, il mio lavoro. Non manco mai, in rispetto a tutta la “squadra”, di ricordare che il mio lavoro è scelto, voluto, organizzato, costruito e sostenuto dalla RSA nella quale opero. I parenti, con miliardi di modi diversi e infiniti sinonimi, appellandosi anche a religioni diverse in cui credono, parlano tutti della loro infinita gratitudine verso questo servizio di comunicazione che gli permette di “amare ancora, anche se telematicamente” il proprio caro, o di essere aiutati, sfruttando lo strumento informatico come canale di sfogo delle loro ansie e delle loro frustrazioni.

Anche i parenti, in qualche modo… si sentono parte dell’equipaggio di questa nostra “Nave”.
Bella la sensazione del “sentirsi parte di…” La provo con le famiglie ma la sto provando con la “mia” struttura”.

Mio nonno è stato per anni nella Marina Militare. Mi descriveva il rigore e la disciplina militare ma ciò che raccontava con sentimento ed enfasi, soprattutto durante la guerra, era l’essersi sentito parte di una famiglia; una famiglia molto grande certo, ma pur sempre una famiglia, dove ogni singolo elemento condivideva gli stessi obiettivi, al di là del grado e della qualifica: il bene di tutti i componenti; il ritorno a casa in salute per tutti; la continua collaborazione e il necessario supporto psico-emotivo reciproco; la fraternità. Tutto ciò diveniva il motore che spingeva a accettare il dolore e la sofferenza, a sopportare piccoli e grandi sacrifici e che permetteva di superare e rielaborare, con coscienza e sentimento, la morte come evento significativo e facente parte della vita.

La mia RSA, proprio durante il Coronavirus, mi ha ricordato quello stesso concetto di famiglia. Tutti hanno risposto con grande impegno e spirito di sacrificio perché si è capito che l’unione faceva la forza. Non c’è stata fatica, non c’è stato dolore, non c’è stato disagio che non venisse condiviso e poi supportato da tutte le persone per provare a superarlo insieme.

Come su una nave, anche sul mio lavoro ognuno ha il proprio compito e le proprie mansioni. Ma durante questa emergenza ho visto atti che… scaldano il cuore: Ho visto il “capitano della nave” scendere dal posto di comando per aiutare l’ultimo dei marinai nel lavoro più “umile e sporco” ma necessario. Tutti abbiamo seguito, dopo averlo apprezzato, quell’esempio. Ciò non è successo, come qualcuno potrebbe insinuare o pensare, per una cattiva gestione o per una mala organizzazione.

Questo è successo perché tutti avevamo gli stessi obiettivi: aiuto e sostegno reciproco; unione costante delle forze; sacrifici da condividere; ma soprattutto, proteggere i nostri residenti; combattere il Coronavirus e riunire i nostri cari residenti con i loro parenti. Ognuno di noi sapeva… e sa… di far parte utilmente di un grande equipaggio… di questa “Nave”.

Siamo nella tempesta ma siamo uniti e uniti ne usciremo. Stanchi, pieni d’indimenticabili immagini di sofferenza, di dolore… Consci che anche se prima era una parola tabù, adesso la parola morte è più facile da pronunciare perché l’abbiamo vista e toccata. Pieni di rispetto per la stessa morte, per il dolore e per la sofferenza, perché vivendoli, possiamo dare ogni giorno più valore alla gioia, al sorriso, ad una carezza. Consci che ogni giorno va vissuto con coraggio, con pienezza, con convinzione, con valori e con sentimento, perché non siamo padroni né della vita, né della morte.

A noi spetta di scegliere… Noi possiamo scegliere come vivere e rendere ogni giorno migliore dell’altro, per noi stessi, per la propria famiglia, per la grande famiglia che ci ha adottato, la RSA, e per le persone che con cura e dedizione seguiamo e di cui ci prendiamo cura ogni giorno.

Vostra, “G”

 

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Pubblicato il 05 Giugno 2020
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