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Una nave incagliata tra le Alpi: l’hotel di Gio Ponti in Val Martello, tra utopia e oblio

A Materia Spazio Libero è arrivato Hotel Paradiso, il docufilm che racconta la storia dimenticata dello Sporthotel progettato da Gio Ponti in Val Martello. Un viaggio tra architettura modernista, utopia turistica e oblio alpino

Materia Varesenews

Scoperto per caso sui social e poi approfondito grazie a un incontro con la proprietaria e un libro che ne racconta la storia, l’edificio dimenticato di Gio Ponti in Val Martello torna a farsi notare. L’hotel, oggi e da decenni in rovina, è al centro del docufilm “Hotel Paradiso” che vuole restituire voce a un’opera tanto affascinante quanto misconosciuta. Un gigante silenzioso che sorge tra le Alpi italiane, sospeso tra modernismo e abbandono.

Costruito tra il 1935 e il 1936 come Sporthotel Paradiso, l’edificio si colloca tra le sperimentazioni alpine del maestro milanese. Ponti, figura centrale nell’architettura italiana del Novecento, progettò questo hotel con lo spirito leggero e innovativo che lo contraddistingue. È una “nave incagliata in alta montagna”, come Luciano Bolzoni, ospite della serata insieme a Cristina Busin, l’ha definita. Il corpo estraneo alla valle oggi resta lì, in attesa, enigmatico.

Un’opera dimenticata di un maestro prolifico

Non molti sanno che questo edificio è opera di Gio Ponti. Eppure, si tratta di uno degli architetti italiani che forse ha costruito di più al mondo, vero ambasciatore dell’architettura italiana. Lontano dai canoni decorativi, influenzato da Adolf Loos e dal razionalismo europeo, Ponti affronta ogni progetto con un’idea di leggerezza e verticalità, cercando di “svuotare ciò che per definizione è pesante”.

L’edificio in Val Martello è un hotel sportivo, pensato per una clientela borghese che cercava in alta quota una vita simile a quella cittadina. La facciata si apre a sud, verso il Cevedale, con una geometria semplice e convessa che richiama la forma di un vagone ferroviario – evocazione non casuale, in una zona dove il turismo veniva proprio dalla ferrovia.

Razionalismo e comfort urbano

Ponti progettò tutto: dall’architettura agli arredi. Le stanze erano piccole, perché l’ospite passava la giornata sugli sci. Vi erano un American bar, un salone con camino, una sala per riscaldare gli scarponi e persino un parrucchiere: tutto ciò che la città poteva offrire, trasportato in montagna. Il principio di razionalità si riflette anche nella distribuzione: un corridoio divide l’ingresso, minimizzando lo spreco di superfici.

Un aspetto interessante era la divisione sociale degli spazi: come in un vagone ferroviario, l’hotel accoglieva due classi. Una parte più lussuosa per i ricchi, un’ala più spartana per gli sportivi. Sottotetto con letti a castello per la servitù, impossibilitata a tornare a casa.

Ponti, pur rispettando i canoni architettonici imposti dal regime, lo fece in modo leggero, non propagandistico. Usò il colore come fonte di gioia: soffitti e pavimenti con cromie differenti per personalizzare gli ambienti ugualmente arredati, pareti laterali bianche, nessun velluto. Una montagna umana, funzionale, ottimista.

Un sogno interrotto

L’hotel ebbe vita breve. Inaugurato nel 1936, fu attivo solo fino agli albori della Seconda guerra mondiale. Nel 1943 venne occupato dai nazisti, che lo utilizzarono per l’élite tedesca. Dopo la guerra, non venne più riaperto: troppo isolato, senza corrente elettrica, senza strada percorribile, non più funzionale a un turismo mutato. La sua storia si è congelata.

Per gli abitanti della valle era un corpo estraneo. Non esisteva, non parlava la lingua del luogo. Ma è proprio qui che risiede la sua forza: non un luogo che dà risposte, ma che lascia domande. Un paesaggio disegnato, costruito a servizio di un nuovo modo di viaggiare, che si è perso con il tempo.

Pensare di riportarlo in funzione oggi è un’utopia, in termini di economia anche ambientale. Cristina Busin lo immagina come “luogo di studio a 360 gradi, non solo per l’architettura”, individuando spazi vicini come alloggi per gli studiosi.

Il presente e un possibile futuro

Oggi l’hotel è visto da molti come un ecomostro. Un “ammasso di cemento abbandonato”. Non ha raccolto interesse tra i collezionisti, a parte qualche depliant d’epoca. Eppure, è un testimone straordinario della storia dell’architettura moderna in montagna, di una novità turistica spezzata dalla guerra.

In molti auspicano un restauro. Non per tornare semplicemente a ciò che era, ma per farne un centro di studio, un luogo vivo. Un punto di partenza per riflettere su turismo, architettura, montagna, collettività. Perché abbattere le sperimentazioni, come accaduto in passato, non è solo una perdita materiale, ma culturale.

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Pubblicato il 14 Maggio 2025
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