Vinicio Capossela al Vittoriale: un rito crepuscolare fra sirene, miti, guerra e dissenso
Al Vittoriale degli Italiani, nell’ambito del Festival Tener-a-Mente, il cantautore trasforma il palco in un santuario dell’ombra, scrivendo un concerto dal sapore poetico e civile, tra parole sussurrate, segni di guerra e simboli ancestrali

Un’atmosfera raccolta attende in silenzio le prime note di Capossela, che però sono anticipate da sirene. No, non le creature leggendarie metà donna e metà pesce, non quelle capaci di ammaliare con il loro canto i marinai, ma suoni di sirene che anticipano la morte dei bombardamenti e quelle dei disperati soccorsi. Un richiamo diretto ai fatti di guerra che affliggono il mondo e che segnano profondamente l’attualità, influenzando l’espressione musicale dell’artista.
Foto sopra di Davide Mombelli
Prima di far scorrere le dita sul piano ancora emozioni senza pentagramma: spazio infatti a un monologo evocativo, segnato dalla consapevolezza della guerra come trauma collettivo.
Parole forti, che arrivano allo stomaco in maniera diretta, senza fare sconti. Poi i suoi 88 tasti: le prime note increspano dolcemente la superfice del lago. Si parte da Bardamù, viaggio intenso nell’immobilità dell’anima, male del nostro tempo, vista con gli occhi di chi ha smesso di combattere, ma continua a camminare.
Segue la struggente interpretazione de La crociata dei bambini, magistralmente accompagnata da violoncello, violino e chitarra che si prendono tutta la scena, e cantata con tono sussurrato e liturgico. Potrebbe terminare qui: tante emozioni di quelle che tolgono il fiato. Ma si continua.
Osservando l’artista è atipico anche il suo aspetto: niente giacche colorate o cambi d’abito, solo toni scuri e seri, in una quasi forma di rispetto, quasi litaniato ai temi che rivolge al suo pubblico. Ancora momenti intensi, come la sua personale riflessione che anticipa Gloria all’archibugio, dove Capossela cita Ariosto nel suo Orlando furioso, richiamando il disprezzo del cavaliere errante per l’archibugio, vista come arma da fuoco che annienta l’eroismo cavalleresco di picca e spada.
Ennesimo monologo con una forte eco legata alla drammaticità delle guerre contemporanee, perché da allora quell’archibugio non ha mai smesso di sparare, e non solo note stonate.
Nel clou della serata, Capossela rimarca anche il disprezzo per Gabriele D’Annunzio, con il Vate simbolicamente lì, a guardarlo da pochi metri, affacciato al suo balcone che domina la magnificenza del lago.
“Fu schiavo del suo tempo e della sua vanità”, dice, contrapponendolo a Oscar Wilde, che al contrario “pagò di persona ma mantenne intatta la sua visione”. Questa connessione anticipa la poetica recitazione della versione musicata de La ballata del carcere di Reading, riletta come atto di maturazione dello scrittore, ma soprattutto come resistenza poetica.
Poi La belle dame sans merci, tributo a John Keats, e la travolgente Brucia Troia, dedicata al cinquantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini. Spazio anche alle problematiche legate alla violenza di genere, con La cattiva educazione.
Intenso, greve, a tratti complesso e certamente non per tutti, lo spettacolo di Capossela si muove con l’atmosfera buia come la notte che ormai avvolge il Vittoriale, squarciata però nel finale da una lama di luce intensa, quando arrivano le note quasi circensi di Marajà seguite da quelle di Pryntyl: ballata moderna che fonde mito, letteratura e musica in una narrazione arcaica e coinvolgente, ispirata alla metamorfosi di una sirena — che naturalmente canta in sirenese…
Non concede un vero e proprio bis: sul palco ci torna con un calice di vino, che condivide idealmente con il pubblico, ancora una volta raccontando storie. Una degna chiusura, che esalta una cifra stilistica capace di unire letteratura, mito, attualità e musica, anni luce lontana dalle serialità del mainstream e vicina alla coscienza attiva dello spettatore.
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