Le metamorfosi di Isabella Bona

L'arte secondo la giovane artista bellunese

Isabella Bona è una giovane artista bellunese che ha già al suo attivo una serie di esposizioni collettive e personali di un certo livello nel Nord e Centroitalia. Dopo il diploma all’Accedemia di Belle Arti di Venezia l’artista veneta sembra essersi molto ben espressa se si considera la recente premiazione romana nell’ambito della manifestazione Open Art, che la ha vista esporre nella Sala del Bramante. In questi giorni si segnala poi l’apertura della sua ultima personale a Torino, presso il Cenacolo Felice Casorati in Campidoglio, che ospita una decina di fotomontaggi di grande effetto in una esposizione intitolata "Metamorfosi"; un tema, almeno all’apparenza, piuttosto impegnativo per una giovane artista, dove il corpo della modella viene fuso con immagini del mondo animale fino a risultare ibrido, come trasfigurato in una sorta di immagine di “confine”.

Come è nata l’idea di sviluppare un tema così impegnativo, non solo dal punto di vista tecnico, come quello delle Metamorfosi?

La scelta di confrontarmi con il tema delle Metamorfosi deriva da molteplici motivi, sia di ordine concettuale, che estetico, che formale.

Il tema delle metamorfosi mi ha infatti sempre profondamente suggestionato per la sua presenza continua all’interno della cultura occidentale – dall’antichità fino alla contemporaneità – e per la lettura che di esso ne hanno dato scrittori e artisti. Mi riferisco a Ovidio, il primo cantore delle metamorfosi, che nel suo capolavoro letterario ha descritto le infinite forme in cui si traducevano gli incantesimi con i quali gli dei manifestavano la loro potenza sull’uomo. Il Manierismo Cinquecentesco ed Europeo, Shakespeare in particolare, ha poi interpretato la trasformazione del corpo umano in altro da sé come un’alternativa al destino mortale, come una forma di perpetuazione artificiale della vita dopo la perdita della vita naturale. Infine la modernità, e penso a Max Ernst e a Magritte, hanno ripreso il tema della metamorfosi rileggendolo in una chiave dove in atmosfere sospese e silenziose incombono presenze minacciose e sensuali circondate da una natura lussureggiante e scenografica, quasi teatrale. Le “mie” metamorfosi sono una fusione di tutte queste potenti suggestioni anche se il senso profondo del mutamento che infliggo ai miei corpi è molto vicino all’idea ovidiana della punizione divina nei confronti dell’uomo.

Venendo alla tecnica che ho adottato per dare forma alle Metamorfosi, questa domanda mi dà modo di spiegare che la scelta di usare il mezzo fotografico non è che il risultato di un lungo processo di elaborazione e di progettazione dell’immagine, è un punto di arrivo non fine a sé stesso: se dovessi definire il mio modo di lavorare lo paragonerei più a quello di  un’artista in senso quasi tradizionale che a quello di un fotografo. Mentre infatti il fotografo di norma ricerca nell’immediatezza dello scatto il suo massimo risultato, io ricerco l’effetto finale attraverso molte fasi preparatorie di studio e di elaborazione dell’immagine che comprendono, non da ultimo, anche il disegno. L’uso della fotografia rappresenta perciò solo un mezzo, sebbene il più sofisticato, per dare forma alla fusione di due enti materialmente diversi nel tentativo di annullare le rispettive caratteristiche e pervenire ad una perfetta combinazione di reale e fantastico.

Una domanda difficile. Cosa sono, in due righe, il reale e il fantastico per Isabella Bona?

Reale e fantastico sono l’eterno dilemma dell’uomo, le due dimensioni entro le quali si svolge la sua esistenza. L’immaginazione e la fantasia di cui è enormemente dotato lo spingono a pensare sempre oltre i limiti del reale – ovvero del quotidiano, del presente, del qui ed ora –. Oltre all’immaginazione e la fantasia oggi abbiamo anche la tecnica che ci fornisce infiniti strumenti per avvicinare il fantastico alla nostra dimensione reale. Per me la fotografia è uno di questi strumenti, è il mezzo che mi permette di realizzare le mie visioni fantastiche e renderle sempre più “reali”.

Le chiedo in fine un commento al testo per il catalogo proposto da Delia Gianti, la curatrice della mostra torinese, che scrive: «Questo corpo che guardo allo specchio ha il mio nome, sono io: è il mio essere più profondo; non è nascosto dentro di me, è visibile agli occhi di tutti». Non c’è qualcosa di fiabesco?

Più che di fiaba io parlerei di poesia: quando scelgo di autoritrarmi per impersonare le metamorfosi, lavoro su me stessa modificandomi, trasformandomi, traducendo in immagini i mutamenti del corpo che coincidono spesso con le variazioni enigmatiche della mente. Tutto ciò che accade dentro di me e su di me io lo riverso nell’immagine ed è uno svelare agli altri il mio pensiero più profondo. La fiaba è una rilettura del mondo e dei suoi meccanismi in chiave fantastica, la poesia è un raccontare il proprio mondo – soprattutto interiore – agli altri. Il mio lavoro è più vicino a questo.

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Pubblicato il 27 Aprile 2007
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