Sarajevo, come si uccide una città
Il 5 aprile del 1992 iniziava il martirio della capitale della Bosnia Erzegovina: un modello multiculturale travolto dai nazionalismi che sconvolsero la Jugoslavia
Il 5 aprile del 1992 i cittadini di Sarajevo – bosniaci musulmani, serbi, croati, ma anche semplicemente "jugoslavi" – marciavano insieme fianco a fianco per chiedere la fine degli scontri tra Serbia e Croazia e all’interno della Bosnia rurale: i paramilitari serbi spararono sulla folla uccidendo due studenti. E quella notte, quasi d’improvviso, la città si ritrovò assediata. Le milizie nazionaliste serbe ne fecero un bersaglio simbolico, da conquistare o in alternativa annientare: come già a Vukovar in Croazia si voleva cancellare l’idea della convivenza pacifica tra le diverse etnie, l’essenza stessa della città come luogo d’incontro e di trasformazione. Non a caso i nazionalisti serbi scelsero come loro capitale, simbolica e operativa, un villaggione isolato in mezzo ai monti, Pale.
A contrastare questa idea ci fu il fronte di resistenza della città che – nonostante episodi di persecuzioni etniche contro serbi e croati, da parte di bande armate musulmane – seppe tenere uniti musulmani, croati e serbi, al punto che il comandante della guarnigione che difendeva Sarajevo era un serbo, il generale Jovan Divjak. Nonostante ciò, la maggior parte dei commentatori e dei politici europei si appiattì invece sull’idea degli opposti nazionalismi e sulla retorica dei "barbari slavi". E l’Onu trattò i difensori di Sarajevo alla pari degli aggressori nazionalisti. Paolo Rumiz pochi mesi dopo scrisse un libro in cui descriveva le "maschere per un massacro", i nazionalismi usati per coprire gli interessi economici interni e internazionali, l’uccisione della cultura cittadina tollerata come "scontro tribale". Bombe e colpi di mortaio serbi distrussero chiese cattoliche e ortodosse, moschee, danneggiarono una sinagoga. E incendiarono la biblioteca(nella foto), custode della storia e delle cultura della città, dove era custodita la copia più antica di libro ebraico in Europa (l’Haggadah di Sarajevo, che un imam musulmano aveva salvato dalla furia nazista, durante la Seconda Guerra Mondiale).
E alla fine la Bosnia Erzegovina è finita smembrata in due entità. Europa e Onu con gli accordi di Dayton hanno accettato l’idea della divisione etnica aprendo un fronte pericoloso all’interno della politica e della cultura europea, già percorsa da tensioni separatiste e identitarie. Come scriveva ancora Paolo Rumiz:
L’assedio di Sarajevo finì il 29 febbraio 1996, dopo quasi quattro anni: 12 mila cittadini erano morti. Il rappresentante dei cittadini serbi di Sarajevo Mirko Pejanović (che è stato nella Presidenza della Bosnia-Erzegovina e poi fu professore universitario), rispondendo alle critiche dei nazionalisti serbi che parlavano di massacri incontrollati dentro alla città, nel 2005 ricordò ancora:
La raccolta di articoli sui vent’anni dell’assedio, su Osservatorio Balcani Caucaso.
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