Sul rinascimentino lombardo regna il “gran silenzio del mondo”
Ho percorso un attimo fa, come quasi tutti i giorni, il tratto finale della A8 verso Varese. Oggi è una giornata speciale, sebbene secondo un proverbio il 3 febbraio – San Biagio – sia il più freddo dell’anno: un’aria tiepida che imita (o anticipa) la Primavera, un paesaggio limpidissimo; sopra di me il manzoniano “cielo blu di Lombardia, che è bello quando è bello”, a sinistra il Rosa, poi il Sacro Monte. Poco oltre, di fronte, l’inconfondibile punta del Poncione, la Martica…
Non c’è neppure coda, e il verde della mia provincia settentrionale per un poco colora di speranza e di bellezza la vista. Col verde negli occhi, il verde “impolitico” della natura, riesco persino per una volta a non notare la “E” finale scomparsa dal nome della mia città sul cartello stradale. Sono i giorni, in fondo non infrequenti, in cui capisco perché alla fin fine amo stare qui.
Sono uscito fuori tema? O c’è, direbbe Gregory Bateson, una struttura che connette la natura con la cultura, queste colline e montagne con la dimensione della polis?
Tempo fa, proprio Bateson scrisse – parlando delle analogie – che un sillogismo come: “L’erba è mortale, gli uomini sono mortali, quindi gli uomini sono erba” è chiaramente errato dal punto di vista logico, ma nasconde forse in sé qualcosa di essenziale, di più profondo. Un destino comune, indubbiamente, ma – lo vedo oggi – anche una possibile comune bellezza.
Il Rinascimento, in forma solo apparentemente paradossale, riscoprì l’uomo proprio nel momento in cui una rivoluzione concettuale ne ridimensionava la posizione entro la geometria dell’universo: ricondotto dal centro al margine divenne essenziale per l’uomo indagare le potenzialità della propria limitatezza ed arricchire così il proprio posto nel mondo.
Ecco: forse in questa consapevolezza di essere erba e di avere bisogno di cura, nutrimento, sole ed ossigeno, in questa chiarezza del limite e del bisogno – e insieme della nostra possibile ricchezza multidimensionale – sta la scommessa di un futuribile Rinascimento culturale varesino. Ispirato dal paesaggio.
Ma non – e torno brevemente ad un tono meno lirico – il Rinascimento pre-elettorale sbandierato da Albertoni e Albertini (ironia dei nomi: mancherebbe solo Albertazzi al Piccolo!): un Rinascimento fatto di cattedrali nel deserto ed “investimenti in conto capitale” (leggi: ristrutturazioni) cui corrisponde la mannaia sulle attività culturali; torri di Babele senza abitanti né lingue diverse: involucri. Né il conseguente Rinascimento del Principe, che allunga regalìe a chi ossequiente porge il cappello o elabora progetti (preferibilmente “grandi”) ma soprattutto “conformi”. Un feudalesimo vestito di broccato.
Ho già avuto modo poco tempo fa di “buttare lì” qualche proposta concreta relativa a Varese – in particolare per l’infanzia – ispirandomi proprio alla tradizione e utopia rinascimentale delle “Città Ideali”: in sostanza non ho avuto risposte, dall’interlocutore pubblico come dall’imprenditoria, il tanto decantato “sponsor privato” – inesistente – della cultura. Il Rinascimento ebbe protagonisti ed oppositori, roghi ed abiure: oggi, in questo rinascimentino lombardo, il “gran silenzio del mondo” regna sovrano.
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