Corporate governance
Si è parlato, in occasione delle indagini sul “mostro di Firenze”, di “compagni di merende” per designare un gruppo di persone sospettate di complicità nei delitti. Immaginifica definizione, che dava una nota di ironica spiritosaggine in una questione tragica e delittuosa.
Ora si presenta l’espressione “furbetti di quartiere” per definire Gianpiero Fiorani e compagni in disinvolte e azzardate operazioni finanziarie, che però hanno avuto il risultato di arricchire sensibilmente i partecipanti.
Fiorani amministrava un’impresa che non gli apparteneva, ma pare se ne servisse per arricchire se stesso. E anche altre persone, che potevano essergli utili nelle sue operazioni, e comunque con le quali si potessero mettere in atto scambi di favori. Una congregazione di questo genere che tende a scopi illegittimi è definita dal codice penale “associazione per delinquere”.
Si tratta di gente che amministra grandi quantità di denaro, parte appartenente a loro, parte ad altri personaggi consapevoli, la maggior parte del denaro di solito a titolari inconsapevoli. E’ questo il caso delle banche, questione delicatissima poiché guai se chi deposita i propri soldi in banca sia sfiorato dal dubbio che questi possano, a seguito di varie circostanze, sparire e che la banca possa fallire. Sarebbe un tracollo per il sistema finanziario. Perciò ci sono severe regole e principi la cui applicazione è affidata al controllo di una istituzione di grande serietà e prestigio: la Banca d’Italia.
Il nocciolo della questione è che persone che si trovano in posizioni di potere e/o che hanno la disponibilità (non necessariamente la proprietà) di molto denaro, sono soggette a notevoli tentazioni riguardo l’arricchimento personale o l’estensione del loro potere. E tutto ciò non deve suonare nuovo: pare che l’imperatore Adriano, romano del secondo secolo dopo Cristo, tendesse a non cambiare di frequente i suoi governatori, poiché pensava che nei primi anni di potere si fossero già arricchiti con prevaricazioni e ladrocini e poi fossero già abbastanza soddisfatti, mentre sostituirli con nuovi famelici incaricati avrebbe peggiorato le cose.
Che fare? Pene severe, severissime? Questa può essere una soluzione, purché i reati vengano identificati, il procedimento giudiziario conseguente sia rapido ed efficace, le pene siano applicate. In U.S.A., dopo gli scandali finanziari di Enron, Tyco International e WorldCom (ora MCI), è stata fatta nel 2002 la legge chiamata Sarbanes-Oxley che stabilisce pene fino a oltre venti anni di carcere (pene che vengono di fatto comminate) in un contesto di regole applicabili alle società di capitali a tutela degli investitori terzi. E’ il problema della “corporate governance” (norme di gestione societaria).
Anche in Italia, con la riforma del diritto societario, sono state introdotte norme generalmente applicabili alle società per azioni al fine di stabilire un gioco di condizioni, controlli, contrappesi per impedire che persone in cariche di comando possano gestire non nell’interesse della società ma nel proprio interesse. Norme che già in forme più dettagliate sono applicabili alle società quotate in Borsa e sotto il controllo della Consob. Ma nel contempo viene sostanzialmente depenalizzato il falso in bilancio, che è reato necessariamente connesso con i reati e le truffe societari.
Si è cercato di fissare regole per la formazione dei consigli di amministrazione (organo che gestisce le società) e dei collegi sindacali (organo che controlla la legittimità dell’operare degli amministratori), nell’aspettativa che l’indipendenza del giudizio e della posizione delle varie persone coinvolte consenta (imponga) a tutti di agire secondo la legge. Ma è difficile; nella pratica quotidiana si creano rapporti di colleganza personale, di convenienza, di sudditanza, che rendono difficile una assoluta indipendenza di giudizio. Risulta che il presidente Fiorani fosse molto popolare fra dirigenti e funzionari della sua banca, e del resto anche i colleghi del consiglio di amministrazione o i sindaci non sembra che sollevassero obiezioni al suo agire. Questa “corporate governance” può dunque funzionare? Avere delle regole è già un passo avanti. Che queste regole siano recepite da tutti gli operatori come un imperativo morale è già più difficile. Ricordo i primi anni della professione in cui avevo occasione di parlare con funzionari di società estere, soprattutto inglesi. Nella coscienza generale in Inghilterra chi evadeva le imposte era considerato un ladro, una persona che rubava alla comunità. Da noi era solo considerato furbo, e spesso v’era, in chi commentava, una malcelata nota di invidia. Ma erano colloqui di molti anni fa!
Bisogna, perché ci sia speranza di miglioramento, che queste regole di comportamento siano recepite dalla coscienza generale. Ed è quindi bene parlarne ed essere informati.
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