Il tuareg chiede di Bossi: «Perché ci chiama Bingo Bongo?»
Nel cuore dell'Africa la cultura e la politica italiana sono seguite con interesse. Il racconto del consigliere regionale Mario Agostinelli
Bamako (Africa) Con una felice intuizione il movimento di Porto Alegre ha deciso di riconvocarsi quest’anno in tre continenti contemporaneamente : Africa (Bamako), America Latina (Caracas), Asia (Karachi). Così, in attesa del Forum mondiale 2007 in Kenia, già nel 2006 l’Africa con i suoi movimenti si affaccia al confronto con la globalizzazione che la sta cancellando.
Siamo in Mali per preparare il Forum ormai all’avvio ed in particolare il contratto mondiale per l’energia e il clima, in analogia con il successo del contratto per l’acqua. È una fortuna ed un privilegio, per osservare da qui le ferite di un modo di vivere dei nostri Paesi al di sopra delle loro possibilità e a discapito dei reietti della terra. (foto sopra: Mario Agostinelli)
Per aiutare a capire la straordinaria novità della presa di parola dei Paesi africani, senza voce dalla grande speranza di Bandung (1955) e dal sogno dei non allineati di uno sviluppo autocentrato, mi è sembrato utile fornire un quadro del Mali, il Paese al cui interno si svolge il Forum policentrico 2006.
È facile inciampare, nel vero senso della parola, nelle contraddizioni di questo Paese. Infatti l’ultimo rapporto dell’ONU condanna il Mali al quartultimo posto tra i bassifondi del pianeta: un bambino su cinque non raggiunge i cinque anni, c’è un medico ogni sedicimila abitanti, il 68% della popolazione prova a vivere con meno di un euro al giorno. Nella miseria ci inciampi perchè le strade polverose sono inondate di banchetti dove sono allineati al massimo un mucchietto di pannocchie o di mango o di banane che pochi possono comperare. Eppure il Paese è ricco di oro ed era il principale esportatore mondiale di cotone, finchè lo strangolamento del debito non l’ha costretto a privatizzare e a mettere sul mercato persino la risorsa acqua, fornita con maestosa imponenza dal Niger che lo attraversa.
Oggi è in corso una nuova fase di colonizzazione: il commercio cinese lo tocchi con mano e lo vedi nel rimpiazzo di tutti gli arnesi della tradizione di questo paese. Secchi di plastica made in China e catini di ferro dipinto e smaltato al posto delle calebasse, le grandi zucche svuotate che stavano sulla testa delle bellissime donne maliane; coperte di bruttissimo tessuto sintetico che si illuminano la notte per le cariche elettrostatiche che si accumulano; motorini «Royal» fatti a Shangai per i ragazzini della borghesia che saltano giù dai lenti carrettini trainati dagli immancabili asini e sollevano polvere tra l’invidia e lo stupore di quelli che, a lato strada, si giocano la loro abilità nei consunti «calciobalilla» onnipresenti. La presenza di capitale straniero, però, é meno folcloristica nella requisizione delle poche industrie rimaste (abbiamo visitato la Cototex a Sengou dove i macchinari sono nuovi e vi lavorano 1300 persone al sabato, alla domenica, alla notte per medie di 43 ore settimanali e, ovviamente, management e capitali sono asiatici) o nelle forme di cooperazionze con cui si scambiano aiuti per incursioni in settori fondamentali, come nel caso della gestione dell’acqua della diga di Makkalla, o , infine, nel sostegno finanziario degli arabi integralisti (Sauditi e Mauritani) alle popolazioni miserrime che si raccolgono nelle moschee.
In Mali, ex colonia francese grande tre volte l’Italia, la povertà ha sempre convissuto con un Islam moderato e secolare. L’85% della popolazione é mussulmana ma nessuno nega spazi a cristiani ed animisti. Nè il governo ha mai imposto leggi islamiche ed anzi difende la laicità dello stato. Le popolazioni del Mali sono almeno 10 di diversa etnia e con diversi linguaggi, ma hanno sempre convissuto ed hanno dato esempio a tutto il continente africano di tolleranza e di difesa della propria diversità.
Al Festival du Desert di Essakane, 60 chilometri a nord di Timbuctu, il capo del governo regionale – un tuareg che ha deposto le armi solo 8 anni fa – ha inneggiato alla solidarietà nella diversità e poi, prima di dare il via ad un incredibile concerto di musica maliana tra dune bianchissime (solisti cantastorie accompagnati da rock, blues e percussioni afro con flauti magrebini), ha chiesto a tutti di vivere con orgoglio la loro integrazione ed il rispetto quasi mistico per la natura. Parlandone il giorno dopo con il direttore del museo etnografico di Timbuctu – una città virtuale tutta da capire e pochissimo da vedere, fonte di inarrivabile mistero per gli europei e di orgoglio espansivo per gli arabi- ci siamo accorti di quanto sia profonda la cultura di questi popoli e la conoscenza degli altri. Conosceva in modo profondo la letteratura italiana moderna e citava titoli e situazioni di Moravia, Buzzati e Pavese e, sorpresa, leggeva su Internet i giornali italiani. Quando ci ha chiesto, con un mezzo sorriso, del «Cavaliere» ce la siamo cavata bene dicendo che noi siamo altermondialisti. Ma quando ci ha scoperti varesini, ha chiesto severamente perchè Umberto Bossi chiama quelli come lui Bingo Bongo. Ci siamo ovviamente vergognati e dall’altra parte del mondo ci siamo chiesti perchè mai Varese debba essere condannata a continuare a vivere il disagio di un sindaco leghista e di un marchio di chiusura che non merita. E per quale maledizione la cultura e l’attenzione sociale di questa città debba rassegnarsi e non invece sostenere uno scatto vincente e raccogliere attorno a sé al più presto e già alla prossima scadenza elettorale un’area aperta maggioritaria, socialmente solidale, innovativa sotto il profilo dell’accoglienza, disposta a non temere, ma ad arrichirsi con la diversità, che ha tutti i mezzi per valorizzare anzichè demonizzare. (1 continua)
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