Il “ragionevole dubbio” di Alessandro Gassman

Intervista all'attore e regista che salirà sul palcoscenico del teatro intitolato al padre con "La parola ai giurati" lo spettacolo tratto dal dramma di Reginald Rose

Un giovane ispano-americano accusato di parricidio, dodici giudici chiamati a decidere e un ragionevole dubbio che potrebbe portare all’assoluzione. Con "La parola ai giurati", lo spettacolo tratto dal dramma “Twelve angry men” scritto nel 1957 da Reginald Rose, Alessandro Gassman torna sul palcoscenico del teatro Condominio di Gallarate.

L’attore si calerà nei panni dell’unico giudice non convinto della colpevolezza dell’imputato e che cercherà di far crollare quelle apparenti certezze che potrebbero condannarlo alla morte.

Gassman, è una scelta deliberata quella di mettere in scena uno spettacolo come “La parola ai giurati” mentre in tutto il mondo si sta lottando per la cancellazione della pena di morte?  
«Sì, ho scelto questo dramma perché il testo di Reginald Rose mi piaceva moltissimo. Ho ricevuto l’incarico di direttore del Teatro Stabile d’Abruzzo e penso che sia un mio compito quello di aprire una discussione, attraverso il teatro, su temi importanti come questo».

È un modo per lanciare un messaggio?
«Più che altro per far riflettere, per portare le persone a riaprire il dibattito, quello contro la pena di morte, che ora con la moratoria è ancora nella sua fase iniziale. Questo spettacolo è stato già messo in scena da altri autori con lo stesso obiettivo e siamo accompagnati anche da Amnesty International che sarà presente anche al teatro di Gallarate».

Un teatro che porta il nome di suo padre, che cosa prova quando sale su quel palcoscenico?
«Ci sono stato nell’ottobre del 2006 con "La forza dell’abitudine"  ed è stata un’esperienza importante e emozionante. Negli ultimi anni sono nati tanti teatri con il nome di mio padre ma quello di Gallarate, oltre ad essere davvero un bel teatro con un pubblico caloroso, è l’unico che mi ha visto salire due volte sul palcoscenico».

In un’intervista fatta a suo padre negli anni settanta, una giornalista chiede il perché lui non abbia mai recitato in film politici o socialmente impegnati. Lui con semplicità le rispose “Noi attori facciamo il cinema che ci fanno fare”. Secondo lei è ancora così?
«Purtroppo sì. Capisco la risposta di mio padre. In quegli anni c’è stata una fase che ha visto crescere il cinema politico e di contestazione, una parte dello spettacolo da cui mio padre era però lontano. Lui ha avuto una carriere straordinaria interpretando altri ruoli. Ricordo però "Nel nome del popolo italiano" di Dino Risi, era un film che trattava il tema della giustizia con Ugo Tognazzi nella parte di un giudice e mio padre nella parte di un industriale. Quello a suo modo era un reale ritratto dell’Italia di quegli anni senza essere di stampo politico».

A un giovane che vuole intraprendere la carriera nel mondo dello spettacolo che cosa consiglia? Il teatro può essere considerato una buona palestra?
«Certo. Il teatro dà una possibilità a tutti, è una strada che si potrebbe definire "democraticamente percorribile", perché non fa selezione in base alla ricchezza. Per mettere in scena uno spettacolo basta davvero poco ed è un buon trampolino di lancio. Di sicuro consiglio di stare lontano dai reality…»

Tv, pubblicità, teatro e grande schermo: a cosa non rinuncerebbe mai?
«Al teatro. Soffrendo un po’ perché mi fa stare lontano per un periodo dell’anno da mio figlio. Il palcoscenico dà grande soddisfazione e in questo momento permette di fare qualcosa di importante per la cultura, troppo spesso relegata a spazi sempre più nascosti sulla stampa e sulla televisione. Per questo motivo amo andare anche nei piccoli teatri di provincia, per dare la possibilità al pubblico di vedere qualcosa che in tv non si trova».

In quale ruolo che ha interpretato o che vorrebbe interpretare si è riconosciuto di più?
«In quello del protagonista in "La forza dell’abitudine". Interpreto un uomo di ottantacinque anni, diverso quindi da me nel fisico e nel tempo, ma molto simile nel personaggio. I testi di Bernhard mi affascinano da sempre e per questo ho scelto quello spettacolo anche per il mio debutto da regista».

È vero che il suo sogno è quello di aprire un agriturismo?
«Sì. Una volta lo sognavo in Toscana, ora però ce ne sono talmente tanti, potrei optare per la Lombardia o per l’Abruzzo…»

Che cosa offrirebbe ai sui ospiti?
«Qualcosa di semplice, dei bucatini alla carbonara che adoro e un vino bianco, un traminer».

 

 

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 08 Gennaio 2008
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