Mombelli: “I conti alla fine si pagano”
L'ex deputato varesino del Pci analizza la sconfitta della sinistra
Luigi Mombelli, detto Gigi, è stato deputato della Repubblica per due legislature. Ha ricoperto varie cariche amministrative. È stato dirigente politico provinciale del Pci negli anni caldi di Tangentopoli, tanto da esserne coinvolto in prima persona.
__________________________
Ho militato attivamente nel Pci, poi Pds, per circa trent’anni dal 1964 al 1994. Ho fatto il consigliere comunale e provinciale e poi il deputato nazionale dal 1987 al 1994. Ho diretto per otto anni la Federazione Provinciale di Varese del Pci, sono stato membro della Direzione regionale lombarda del Partito e della Commissione Centrale di Controllo per due mandati.
Ho partecipato quindi per un lungo periodo alla vita politica del partito comunista ed ho contribuito al suo dibattito interno ad ogni livello da posizioni che sostanzialmente nell’ultimo decennio di vita del Pci furono indicate come "miglioriste" o "riformiste" e che facevano capo a Giorgio Napolitano. Il tentativo operato da questa componente per adeguare il partito alle trasformazioni sociali che stavano avvenendo in Europa e nel mondo fu sempre messo in minoranza dalle componenti estremiste e conservatrici che per lungo tempo ebbero, come punto di riferimento, Ingrao e poi Cossutta ed altri. Lo stesso Berlinguer durante i dodici anni della sua segreteria, a cavallo degli anni 70 e 80, non si confrontò in maniera approfondita con la componente riformista al fine di indagare la possibilità di un’evoluzione del Pci verso una forma di partito socialista europeo. Stabilì dei buoni rapporti con la Spd (Partito socialdemocratico tedesco) e alla fine, grazie anche all’intermediazione di Craxi, il Pci riuscì a farsi ammettere nell’Internazionale socialista. Ma questo non significò mai un confronto critico con i partiti socialisti europei ed un’analisi non viziata da ideologia sul ruolo svolto dal partito in Italia a partire dal dopoguerra. Tale esame critico non venne fatto neanche dopo la caduta del muro di Berlino e addirittura dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica ed il fallimento della politica di Gorbaciov, che si era illuso di poter democratizzare il suo paese attraverso lo strumento che era stato la causa di tutti i guai dell’URSS, cioè il Partito Comunista.
Tutto questo provocò certamente uno scossone all’interno del Pci e una discussione che però non andò al fondo dei problemi, non si fece una revisione critica dell’operato del partito nei quasi cinquant’anni che erano passati dalla seconda guerra mondiale, cercando di distinguere quanto vi era stato e vi era di nuovo, da quanto invece vi era obsoleto e dannoso per la vita del partito e del paese.
La superficialità dell’analisi condotta negli organismi dirigenti del partito, fu in larga misura favorita dal cataclisma di Tangentopoli. Il fatto che quest’azione giudiziaria avesse distrutto i due partiti principali di governo, la Dc e il Psi, e avesse colpito solo marginalmente il Pci-Pds, soprattutto nella sua ala riformista, illuse i dirigenti di allora ed il segretario Occhetto, che finalmente la strada era spianata per la conquista del potere: il primo punto all’ordine del giorno fu la preparazione della "gioiosa macchina da guerra" per l’attacco a Palazzo Chigi. Dopo si sarebbe pensato al partito, al suo eventuale rinnovamento, alla sua nuova collocazione nella società italiana. Ma la "gioiosa macchina da guerra" fallì e Palazzo Chigi fu appannaggio di un signore che avendo mosso i primi passi in politica qualche mese prima fondò un partito, si alleò con Alleanza nazionale e la Lega Lombarda e vinse le elezioni politiche del 1994.
Questa volta la ragione politica avrebbe voluto che si riflettesse attentamente su quanto era accaduto e si desse avvio alla costruzione di uno strumento-partito all’altezza delle nuove esigenze e delle trasformazioni sociali intervenute. Ma non andò così. Ci si rifiutò di capire le ragioni profonde del fenomeno Berlusconi e ci si accontentò di attribuire la vittoria di questo parvenu della politica al suo potere mediatico ed economico ed anche ai suoi legami con la malavita organizzata. Si vide di buon occhio la persecuzione giudiziaria messa in atto contro il nuovo arrivato e ci si convinse che Berlusconi fosse, tutto sommato, un corpo estraneo alla politica nazionale dalla quale sarebbe stato presto espulso.
Intanto occorreva riprendere subito il potere. Ci fu una mobilitazione generale in funzione antiberlusconiana: oltre a tutte le forme politiche di centro-sinistra e ai sindacati e si arruolarono i magistrati, la maggior parte degli organi di stampa cosiddetti indipendenti con in testa il Corriere (si ricordi il titolo a nove colonne in prima pagina sull’avviso di garanzia al Presidente del Consiglio mentre questi riceveva a Caserta la conferenza internazionale contro la criminalità). Si arruolò in questa battaglia anche il presidente della Repubblica Scalfaro che, oltre al resto, sembra aver avuto un ruolo importante nel convincere Bossi a mollare il cavaliere. Non si volle capire che l’alleanza di Berlusconi aveva vinto grazie soprattutto alla mancanza di un’offerta politica soddisfacente da parte delle forze tradizionali, incapaci di dare risposte alle domande che venivano dalla parte più moderna del paese, che si poneva in Italia oltre alla vecchia ma insoluta questione meridionale anche una nuova questione settentrionale. Tra i vecchi esponenti del Pci solo Macaluso, con la sua rivista "Le ragioni del socialismo", sembrò capire che la sinistra italiana doveva impegnarsi per dar vita ad un partito socialista di tipo europeo. Ma la sua battaglia era ed è un impegno quasi solitario nel panorama politico italiano. Napolitano accettò di far parte del governo nato nel 96 dopo l’abbattimento per via giudiziaria del primo governo di centro-destra; seguì poi, anche da deputato europeo, la sua antica vocazione di uomo delle istituzioni che lo porterà nel 2006 alla presidenza della Repubblica Italiana.
La sconfitta del blocco antiberlusconiano, nel 2001 dopo la vita stentata del primo governo Prodi, dei due governi D’Alema e del governo Amato, non riuscì neanche questa volta a far ragionare gli ex-dirigenti Pci, Pds, Ds che stavano ormai confluendo nell’Ulivo. L’obiettivo dichiarato era sostanzialmente aritmetico: mettere insieme tutti appassionatamente, comprese anche le forze antisistemiche e paraterroriste, per battere l’odiato nemico Berlusconi. Sfrattato da Palazzo Chigi l’"homo novus" della politica italiana questa volta non sarebbe più tornato. La valutazione era sempre la medesima: il leader del centro-destra non godeva di un vero consenso politico, ma le sue fortune si basavano sul potere mediatico ed economico e su un messaggio di tipo populistico ben comunicato. Giocava a suo favore anche la "stupidità" degli italiani come ebbe a dire Scalfari, il profeta del centro-sinistra e dell’antiberlusconismo, insieme a numerosi altri esponenti della stampa e della politica italiana.
Ecco dunque la grande forza unitaria della Unione pronta per la battaglia elettorale del 2006. Con due punti di debolezza: si era dovuto ricorrere ancora una volta a Prodi come candidato presidente perché anche questa volta, ed era la terza dopo il 1996 e il 2001 (Rutelli), gli ex-Pci non avevano ritenuto opportuno e vantaggioso presentarsi con la faccia di un loro esponente per chiedere il voto degli italiani. La seconda debolezza derivava dal fatto che, se i numeri potevano tornare, non tornavano le idee politiche e programmatiche, la visione di cosa fosse e dovesse diventare l’Italia, la collocazione internazionale del nostro paese, il suo ruolo nel combattere il terrorismo, e molte altre questioni fino a quella della fuoriuscita dalla società capitalista sostenuta dall’ala più estrema. Quadravano insomma i conti aritmetici, non certo quelli politici. E lo si vide nel biennio 2006-2008 del governo Prodi. Il governo non è caduto per i capricci di Mastella o di qualcun altro, il governo è caduto perché non stava in piedi politicamente. Lo ha capito subito Veltroni che ha scaricato immediatamente la sinistra massimalista per cercare di dare vita ad una forza politica più coesa che potesse mandare un messaggio più chiaro al paese invece delle 280 pagine del programma dell’Unione del 2006. Anche da questa esigenza nasce il Partito democratico.
Ora, a parte la considerazione che la omogeneità politica che doveva caratterizzare il Pd è stata annacquata vistosamente in prossimità della scadenza elettorale del 2008 con la inclusione dei Radicali e l’alleanza con Di Pietro, il vero problema per Veltroni, ma soprattutto per la sinistra italiana e per il Pese, è se questa fusione tra un pezzo del vecchio Pci, sostanzialmente la sua componente di centro che ha ruotato intorno all’asse Belringuer-Occhetto-D’Alema-Veltroni e la componente di origine dossettiana della vecchia Dc, possa dar luogo ad una forze politica capace di porsi all’altezza dei problemi nuovi del Paese e dell’Europa.
Il Partito Democratico è nato da una giustapposizione meccanica di due pezzi di vecchie forze politiche. Non si è affrontata una discussione critica delle vicende storico-politiche di cui per cinquant’anni esse sono state protagoniste da versanti contrapposti, delle ragioni ideali e dei valori in cui erano radicate queste forze, della misura nella quale queste radici valgono ancora, della possibilità e attualità di fonder due tradizioni politiche così distanti, non tanto al fine di ottenere un buon risultato aritmetico ma di dare vita ad un partito che possa rispondere in maniera soddisfacente alla domanda di un nuovo governo del Paese. Se non si vorrà fare questa discussione fino in fondo per paura di aprire troppo presto delle crepe nel tessuto del Partito democratico, temo che il futuro di questo non sarà affatto roseo. L’operazione in sé è difficile, ma i protagonisti della medesima dovrebbero evitare l’errore che hanno commesso per più di dieci anni: pensare alla salvaguardia dei posti di potere invece che alla costruzione di una nuova forza politica.
Vi è poi la difficoltà di collocare nel contesto politico europeo la nuova formazione. Dovrebbe essere una nuova forza riformista di sinistra, e quindi la sua collocazione dovrebbe essere al fianco dei partiti socialisti europei.Ma riuscirà Veltroni a trascinare su questo terreno la componente cattolica del Pd fino a farle accettare i valori laici di questa famiglia europea. La cosa non sembra facile perché significherebbe per questa componente rinunciare a certi valori tipici del cattolicesimo, anche di quello di sinistra, che sono sì valori culturali e religiosi, ma che ne informano l’attività politica. Il Pd è insomma un partito ibrido che esiste solo in Italia e che ha preso il nome dagli Stati Uniti, il cui Partito democratico ha però un’altra storia ed un’altra tradizione.
La tradizione europea è fatta di partiti socialisti (da cui si svilupparono in un certo periodo storico i partiti comunisti ora in via di sparizione) e di partiti popolari di tradizione cristiano-cattolica. E’ difficile prevedere l’affermazione di un partito nazionale in Europa non legato organicamente ad una di queste due tradizioni (non citiamo la tradizione liberale minoritaria ma pur gloriosa con la quale il PD non ha proprio nulla da spartire).
Il risultato elettorale non è stato negativo per il PD, e tuttavia io ritengo che questa formazione politica, sradicata da una tradizione robusta, non arricchito culturalmente da una riflessione puntuale, avrà una vita difficile. La sconfitta elettorale del 2008 non è imputabile a Veltroni e al suo PD: essa viene da lontano, viene dalla fine degli anni 80 quando era già chiaro che la sinistra e il Pci dovevano cambiare se volevano reggere alla sfida dei nuovi tempi. Neanche le elezioni degli anni 90 e del 2001 hanno indotto i dirigenti di Pci, Pds, Ds a ragionare su come costruire una nuova forza socialista, mettendo in conto che questo lavoro poteva anche comportare una sconfitta elettorale e la perdita di poltrone, perché per i ritardi accumulati si presentava come un lavoro di lunga lena. Non lo si è capito o non lo si è voluto fare. Non si è voluto pagare i conti che si erano aperti con la storia ma, come si sa, i conti prima o poi si devono pagare. Il risultato elettorale del 2008 ne è la dimostrazione palese.
La community di VareseNews
Loro ne fanno già parte
Ultimi commenti
Adriana Andriani su Bogno, la Fondazione Sacro Cuore in liquidazione. Bini: "Non c'erano le condizioni economiche per proseguire"
Bruno Paolillo su Ottant’anni fa Hiroshima: la memoria della bomba che cambiò il mondo
PaoloFilterfree su Vigili del fuoco, organico solo sulla carta: Candiani denuncia l’abuso delle leggi speciali. "Vuote anche le case Aler in convenzione"
Alessandro Zanzi su Crescono le diagnosi di disabilità tra i minori di Varese: +500% in 10 anni
Lina Hepper su La Provincia di Varese studia un gestore unico dei rifiuti: "Una strategia a lungo termine per anticipare il futuro"
Cloe su Quattro eccellenze varesine premiate dai Travelers' Choice 2025 di TripAdvisor
Accedi o registrati per commentare questo articolo.
L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.