Morti sul lavoro, le parole non bastano più

Ogni anno la stessa triste conta e le stesse dichiarazioni di indignazione, ma il bilancio non cambia: 1300 infortuni mortali all'anno. Il sindacato s'interroga

L’Italia, negli ultimi cinque anni, ha avuto una media di 1.300 morti sul lavoro all’anno. Tutti, dal Presidente della Repubblica all’ultimo delegato sindacale, dicono che i morti sul lavoro sono una vergogna, una strage da fermare, tragedie annunciate. Eppure, nonostante l’indignazione, il conto finale ha sempre un saldo abbondantemente in attivo. I sindacati convocano la rituale conferenza stampa dove elencano i dati e i settori sotto accusa, primo fra tutti l’edilizia, con i commenti di circostanza. Risuonano le stesse parole, certamente belle e sincere, ma alla fine di fronte ai numeri prevale un senso di impotenza.

Ma voi sindacalisti non vi stancate ogni anno di rimarcare in tema di infortuni sul lavoro sempre le stesse cose. Che cosa sfugge nell’analisi del fenomeno che non permette di invertire questa tendenza?
«C’è un dato culturale e un dato strutturale dell’economia – esordisce Marco Molteni, segretario provinciale della Uil –. Si è confusa la semplificazione con la deregolamentazione. Sicuramente bisogna snellire l’iter burocratico, che è un problema per  le imprese, ma si devono mettere dei paletti legislativi fermi e inderogabili. Ad esempio, i miei colleghi magari non concordano, ma bisogna mettere come obbligo nelle gare di appalto una percentuale del prezzo dell’opera per la sicurezza, ad esempio il 10 per cento e una clausola contrattuale che vincola l’impresa. Dal punto di vista culturale c’è una sottovalutazione del rischio, altrimenti non si spiegano i sei morti di Catania».

«La via da seguire è quella delle leggi, non c’è dubbio– aggiunge Gian Marco Martignoni, della segreteria provinciale della Cgil . Il Durc che è il documento unico di regolarità contributiva, ovvero l’attestazione dell’assolvimento, da parte dell’impresa, degli obblighi legislativi e contrattuali, è già un buon inizio. Che ci sia anche un dato culturale negativo è innegabile. Se pensiamo che l’ispettorato del lavoro dice che in edilizia, il settore che ha il primato negativo, trovare lavoratori non in regola è la normalità, vuol dire che c’è una mentalità diffusa sulla violazione delle regole. Bisogna tener conto poi che per quanto l’ispettorato del lavoro sia attivo ed efficiente, perlomeno nella nostra provincia, la possibilità che un’azienda subisca un controllo si verifica ogni 25 anni. E forse qualcuno si prende il rischio proprio per questo motivo».

Il sindacato insiste molto sul tema degli infortuni sul lavoro. Che cosa vi dicono i lavoratori anche non iscritti  sul tema degli infortuni e della sicurezza?
«Ci segnalano le situazioni e ci chiedono un controllo, anche se questo non è il nostro ruolo perché non siamo pubblici ufficiali – spiega Roberto Pagano, delle segreteria della Cisl –. I rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza fanno un buon lavoro, ma diventa difficile esercitarlo nelle piccole imprese dove c’è un fenomeno allarmante: molti lavoratori, perlopiù extracomunitari, sono camuffati da lavoratori autonomi, mentre sono lavoratori dipendenti a tutti gli effetti, anzi più subordinati degli altri. E forse quello che diceva Molteni si riallaccia a questo meccanismo, perché la legge con 400 euro, la fattura che dimostra che hai comprato cazzuola, secchiello e frattazzo ti consente di essere un’impresa edile per il privato e il pubblico. E’ un po’ pochino».
«Il sindacato – conclude Molteni –  è una sorta di terminale che segnala le situazioni a rischio e quando lo fa ci prende sempre. Occorre però che la legge nazionale faccia chiarezza e obbligare chi vuole, ad esempio, aprire un’impresa edile non solo a dimostrare che ha mezzi adeguati per esercitarla ma ad avere la preparazione adatta che è possibile ottenere frequentando le scuole professionali come quella edile».

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Pubblicato il 17 Giugno 2008
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