Quel punto rosa di nome Coppi

Il grande campione piemontese accese il tifo di tutti gli appassionati: ecco il ricordo del giornalista varesino Cesare Chiericati

Il gruppo veniva su lento e compatto dalla salita del Cuor di Sasso. In mezzo a molte maglie bianche e di celesti un punto rosa che si avvicinava a un balcone tra le vigne dove, con fratelli e amici, si attendeva il  passaggio del Giro d’Italia. Era il 12 giugno 1949 e quella era l’ultima tappa, la Torino – Monza di 267 chilometri con un passaggio nella città giardino. Fu la prima volta che vidi Fausto Coppi in carne e ossa, fino allora era stato soltanto una foto sui giornali, un eroe delle radiocronache ciclistiche, il rivale di Gino Bartali di cinque anni più anziano di lui.
Da quel giorno e per sempre fu da me il campione più amato. Quando arrivava a Varese per la Tre Valli (ultima vittoria nel ’55), a Lugano per il Gran Premio Vanini (poi Campari e Cynar) a cronometro, facevo di tutto per esserci. Non mancai neppure a una sfida epocale a inseguimento, il 4 settembre del 1953. Lui, fresco iridato della strada a Lugano, affrontava il due volte campione del mondo della specialità, l’australiano Patterson. Il Vigorelli, la pista magica di Milano, era esaurito al limite della capienza (18 mila persone). Ricordo distintamente il silenzio che avvolse il velodromo negli attimi che precedettero il colpo di pistola dello starter, poi il boato quando i due campioni partirono dandosi la caccia. Una luce verde per Coppi, in maglia bianco e celeste, e una rossa per Patterson, in maglia iridata, piazzate all’altezza delle rispettive linee di partenza, davano, giro dopo giro, l’andamento della sfida. Fino a metà gara (l’intera distanza è di 5 mila metri) l’esito parve incerto: qualche metro a vantaggio ora dell’uno ora dell’altro. Poi  il campionissimo distese per intero la sua azione al tempo stesso elegante e potente. Per il biondo canguro scese inesorabile il buio. Coppi fermò i cronometri su 6’06”1, media 49,153, trenta metri tra lui e l’australiano, la miglior prestazione della sua luminosa carriera di inseguitore (due titoli mondiali). In quel settembre del ’53, sui legni del Vigorelli,  fu idealmente incoronato sovrano assoluto del ciclismo, su strada e su pista. Era alla vigilia del suo trentaquattresimo compleanno. Seguirono annate complicate dall’avanzare dell’età, dalle sue vicende sentimentali, dalla sfortuna che lo perseguitò sempre. Ma di tanto in tanto la sua classe senza confini tornava ad illuminare le strade. L’affetto della gente non si affievoliva, al contrario aumentava come se lui, il campionissimo, non dovesse finire mai.
Poi il distacco repentino, la morte assurda per malaria non identificata dai sanitari, quegli incredibili funerali, il dilatarsi della sua leggenda nel tempo. Un fenomeno quello del fuoriclasse di Castellania difficile da spiegare con le categorie della razionalità, con il metro delle statistiche e della scienza sportiva applicabili invece benissimo a un altro mito delle due ruote, Alfredo Binda da Cittiglio. Coppi era un unicum, non aveva riferimenti nel passato e non ebbe eredi nel futuro che seguì la sua fine. Chi ha vissuto in qualche modo da vicino la sua folgorante parabola deve considerarsi un privilegiato dalla sorte. Io tra questi.

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Pubblicato il 02 Gennaio 2010
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