Gli stranieri parlano ai varesini con il gioco
In piazza Podestà la mobilitazione delle associazioni e delle comunità straniere: allestito sotto i portici un grande gioco da tavolo per spiegare le sfide dell'immigrazione
La ragazza indiana indossa vestiti dai colori sgargianti mentre distribuisce volantini sotto i portici. La signora a passeggio prende il foglio, lo legge distrattamente, passa oltre. Ma poi subito dopo alza gli
occhi, a scrutare la strana scena nel fornice tra piazza Podestà e piazza San Vittore: un grande gioco da tavolo allestito a terra, con due dadi giganti. A volte serve anche questo per attrarre l’attenzione: a Varese il Clandestino-Day organizzato dalla rivista Carta è stato accompagnato da una grande giocata collettiva al “Gioco clandestino” inventato dall’ivoriano Watti. «Il razzismo – spiega – nasce dall’ignoranza. Per questo ho pensato che era necessario fare capire cosa vive un immigrato». Ecco dunque pronto il gioco, riproposto ora in piazza. «Esponiamo anche alcune opere d’arte fatte da ex clandestini – aggiunge Thierry Deng – . Essere clandestino è spesso un passaggio obbligato, dovuto alle nefandezze della Bossi-Fini, che non permette ingressi regolari». Il senso della giornata è proprio questa: essere clandestini è una condizione temporanea, dietro cui sta un uomo o una donna che cercano di costruirsi una vita.

La giornata era sostenuta da tante sigle diver
se, dalle Acli alla Uisp, a Cgil e Cisl, riunite nel coordinamento migranti. Ma al loro fianco, sempre più attivi e protagonisti, ci sono proprio gli stranieri, ognuno con la sua identità particolare. Certo non sempre è facile rompere il muro di diffidenza dei varesini. «Siamo attivi da dieci anni – riflette Thierry Deng, che guida il movimento Ubuntu -, ma il dialogo fatica a crescere. Ma oggi è un’urgenza che dobbiamo affrontare, ogni giorno che passa è tempo perso. Lo dico per il bene del Paese, non certo per quello degli stranieri». Mentre tanti rimangono indifferenti e c’è chi addossa le colpe agli immigrati, continua a mancare un modello di società interculturale a cui far riferimento. «Io ho fiducia nella creatività italiana, che può superare i modelli esistenti – quello francese e inglese, ad esempio – e i loro limiti».

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