Haiti, un anno dopo l’apocalisse
Un Paese in ginocchio, ma ancora vivo: ai drammi secolari di miseria, violenza e sovrappopolazione si sono aggiunti i terremoto prima, il colera poi. Ma c'è chi aiuta l'isola a reagire, come la bustocca suor Marcella
Haiti un anno dopo è ancora un immenso campo profughi. Si stima che ancora 1,3 milioni di persone non abbiano una casa degna di questo nome: e si ringrazia il clima tropicale, dall’inverno mitissimo. Il secondo di fila con una capitale che è una distesa di rovine; salvo in poche zone, come a Waf Jeremie, dove sta sorgendo il Vilaj Italyen, con 122 solide casette e servizi di assistenza medica e istruzione primaria, grazie agli sforzi coordinati dalla missionaria bustocca suor Marcella Catozza e aiutati dai fondi raccolti dall’associazione Kay La e di recente anche da iniziative come il libro "Uniti da una favola".
Sta male fare paragoni, la sofferenza è uguale per ogni singola persona colpita, per ogni nazione, ma se si è in grado di visualizzare cosa è costato il terremoto dell’Aquila – trecento morti, enormi danni, paesi in lutto, rasi al suolo – per capire la scala di quanto successo ad Haiti bisogna moltiplicare tutto per mille, e sullo sfondo non di una regione moderna e ragionevolmente sviluppata, ma di un’isola che già prima di quel maledetto 12 gennaio pativa mali sociali ed economici tremendi. Miseria, analfabetismo, disparità di reddito che gridano vendetta, la violenza delle gang, la sovrappopolazione e la devastazione dell’ambiente: un pezzo della peggiore Africa trapiantato a poche centinaia di miglia dalle luci di Miami. Un vaso di coccio su cui si è abbattuto un maglio inesorabile.
– Il disastro
L’apocalisse, il goudou goudou come dicono gli haitiani, colpisce alle 16,53 locali, le 21,53 in Italia, del 12 gennaio scorso. Una devastante scossa di magnitudo 7.0 Richter colpisce proprio la zona della capitale di Haiti, Port-au-Prince. Tecnicamente, non è che un aggiustamento delle placche tettoniche della crosta terrestre, che avviene bruscamente invece che in modo graduale: quella caraibica si sposta di qualche centimetro a est rispetto a quella americana. Il risultato è la distruzione pressochè totale di una città di quasi un milione di abitanti, vicina all’epicentro, in gran parte posta su terreni che fanno da immensa cassa di risonanza alle onde sismiche, e priva di costruzioni a prova di terremoto degne di questo nome. Crollano persino la cattedrale e i palazzi del governo: muoiono a decine di migliaia in centro come nelle bidonville (il body count totale alla fine non sarà inferiore a 222.000 morti), muore chi ha un tetto sulla testa, o si trova in strada nel raggio di un crollo. Centinaia di migliaia i feriti, gli intrappolati. Ci sarà chi sopravvive fino a un mese sotto le macerie, sommariamente rifornito.
Un disastro di portata enorme, inconcepibile; un disastro cui viene data risposta da tutte le organizzazioni internazionali, a partire dall’Onu, già presente in un Paese "a sovranità limitata" a causa delle violenze che accompagnano ogni tornata elettorale. Fa discutere l’impiego di navi e forze militari per portare gli aiuti; di quelli promessi, per ora sarebbe arrivato meno della metà, i tempi per l’assegnazione, gestita da un comitato presieduto dall’ex presidente americano Bill Clinton, sono lunghi. Si mette in moto la macchina della solidarietà, le ong potenziano al massimo le attività, offrono la massima trasparenza, anche online, comunicano, lanciano campagne di raccolta fondi e volontari. Il rapporto con le vittime del disastro resta però complicato, difficile capirsi e far venire incontro i meccanismi della cooperazione alle esigenze concrete: a decidere sono comunque gli stranieri, quelli che portano gli aiuti. Si è avviata appena possibile, appena tamponata l’emergenza, la ricostruzione: ma nemmeno un quinto di ciò che è stato distrutto ha già potuto risorgere o essere compensato da nuove costruzioni, anche le più elementari. A novembre si abbatte fra le rovine un nuovo flagello: il colera, scomparso da decenni e riportato, si dice, da soldati asiatici delle forze Onu. Il conto delle vittime si impenna, ma confronto al terremoto resta una puntura di spillo.
Eppure, per chi è sopravvissuto, fra lutti immani, la vita continua. Persino il gioco: a calcio giocano anche gli amputati, per far vedere che "si può".
– Suor Marcella, angelo protettore di Waf Jeremie
Nel buio del dopo-terremoto hanno brillato le stelle dell’umana solidarietà. Da mezzo mondo a migliaia hanno lasciato tutto per venire da volontari a dare una mano. Dalle nostre parti viene una che era già lì da un bel pezzo: suor Marcella, missionaria francescana e bustocca. Che nella malfamata bidonville di Waf Jeremie, ufficialmente zona off limits per l’Onu, si è conquistata il rispetto perfino delle gang che si disputano il territorio. Affidiamo il racconto di un anno al sito del Vilaj Italyen, alle parole di questa religiosa che con forza e semplicità porta avanti la lotta per la ricostruzione della nazione haitiana, morale oltre che fisica, come ci disse mesi fa quando la incontrammo al’ospedale di Busto. Vi procede aiutata da gente di ogni parte del mondo: da Port-au-Prince a Bergamo (come Daniele, prezioso collaboratore), da Milano (come Elisa, infermiera del Sacco che si è presa un anno di aspettativa per raggiungerla) alla Corea. Proprio dei coreani stanno lavorando in questi giorni per preparare il terreno su cui sorgerà il nuovo Centro Colera della zona: soluzione che permetterà di ripristinare la Klinik Sen Franswa al suo progetto originale – gli ambulatori pediatrico, dentistico, di accompagnamento alla gravidanza; il centro nutrizionale, il pronto soccorso notturno – dopo i giorni terribili segnati dalle recrudescenze dell’epidemia. Raccontava suor Marcella ancora la settimana scorsa come un ragazzone di vent’anni le venisse portato ormai in fin di vita: ed è stato uno di tanti, troppi. A novembre, al culmine dell’epidemia e travolti dai morenti e dai malati, si assisteva anche pregando la Madonna dell’Aiuto, come nella Busto della peste del Manzoni. Quello di suor Marcella era ed è un aiuto pratico: curare, (ri)costruire. Non era la sola bustocca in zona: meno diretti i compiti, ma non meno prezioso il racconto di mesi di esperienza ad Haiti da parte di Claudio Moroni, psicologo. Che ha lavorato in tutt’altro ambito, per far sì che nella capitale sconquassata, almeno le teste restassero sulle spalle. Ma questo è forse tutto ciò che rimane agli haitiani sopravvissuti. Il prossimo passo dovrà essere quello della dignità, della voce in capitolo sugli aiuti – non del governo, ma di chi ha bisogno.
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