Stripsody: uno “smack” tra note e colori
Se composizione è forse esagerato, “divertimento” o “scherzo” è riduttivo. Così ci pensò la critica internazionale: “Stripsody” è un capolavoro. Rieditato dalla Nomos Edizioni di Busto Arsizio il capolavoro di Cathy Berberian con Eugenio Carmi e Umberto Eco
Se composizione è forse esagerato, “divertimento” o “scherzo” è riduttivo. Così ci pensò la critica internazionale: “Stripsody” è un capolavoro. Uno fra i più coraggiosi del XX secolo e la prima composizione di Cathy Berberian, moglie di Luciano Berio, per voce sola.
Rivive ora quel capolavoro del 1966 – a quasi cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione e a trent’anni dalla scomparsa della Berberian – grazie a Nomos Edizioni, una piccola e intelligente casa editrice di Busto Arsizio che pone nelle sue opere coraggio, perseveranza e passione. Con Cathy ideatrice e interprete della composizione onomatopeica-fumettistica (“Stripsody”), Umberto Eco che introduce (presentazione originale e nuovo testo) ed Eugenio Carmi. Pittore, esponente di punta dell’astrattismo italiano e creatore di forme e colori che sono messaggi e linguaggi: terreno comune di tutti gli artisti. Nella riedizione anche un intervento di Cristina Berio (figlia di Cathy e Luciano) che ripropone una breve intervista a sua madre, e numerose foto della Berberian in occasione delle tante presentazioni di “Stripsody”.
Si parte, dunque, dal fumetto perché arte popolare (ma non “bassa”) e perché Cathy – amante dei comics – fu sempre all’avanguardia nel presentare – sul palco o su disco – percorsi musicali fatti di abbinamenti seri o umoristici e spesso distanti fra loro per stile e genere: “Da Monteverdi ai Beatles”, considerato un momento rivoluzionario nell’arte degli anni Settanta, ne è l’esempio più vivo nella memoria del pubblico italiano. Però non si parla del fumetto di casa nostra (nel "Corriere dei Piccoli" non si faceva “bang bang”: lo ricorda Eco) ma delle comics americane dove boom, boing, arf, bla-bla, clang, crash e gasp – scritte per caso e senza ordine sono già sufficientemente musicali – entrano in uno spartito che è bello da vedere ma complicatissimo da “suonare”.
Eco lancia l’idea, la Berberian canta e Carmi modella le curve sonore disegnandole su carta. In effetti, questi due quasi si sovrappongo, perché Cathy compone il fumetto nella sua mente e rafforza il ruolo delle onomatopee (che è quello di comunicare emozioni, e facilitare l’immedesimazione in ciò che accade, divertendo) mentre Carmi entra nel campo della musica e “offre soluzioni vocali”, sottolinea ancora Eco. Cathy cuce i rumble, i paf e i miao con una omogeneità imbarazzante (quasi si trattasse di un romanzo di Proust) e Carmi illustra, sfuma e condivide la provocazione.
Allora “Stripsody” non è né uno spartito di rumori e né una galleria di macchie di colori. Piuttosto un libro, un disco e un quadro. Dove tutto gioca su ciò che è grande e piccolo, accentato o piano, urlato o declamato, caotico o ordinato. Uno spartito come lo erano in quegli anni Sessanta quelli di Cage, Bussotti o Petrassi: una rielaborazione degli alfabeti tra linee e forme, geometrie e grassetti, contorni e campi aperti.
Ma “Stripsody” è anche uno spartiacque tra due momenti che abitano lo stesso secolo: il Novecento di una sperimentazione ormai consolidata (per esempio, l’atonalità) e quello di una sperimentazione ancora curiosa. Cathy Berberian appartiene a quest’ultimo, perché “Stripsody” – che il mezzosoprano eseguiva a volte subito dopo la “Sequenza III” di Berio – inaugura un momento nuovo nell’arte non solo italiana.
Ed è ancora una volta la Berberian a fare della musica un’esperienza di grande stupore: con il sospiro fascinoso, i crescendo improvvisi, il cicaleccio divertito, la grazia infinita, la carica drammatica, la purezza dell’intonazione che eleva i “suoni” del fumetto al rango di pura genialità. Spiazza, questa artista, con un approccio non solo libero ma addirittura visionario, attuale e figlio degno di una contemporaneità che doveva ancora arrivare. E che condivide l’ansia di John Coltrane nel dire: «Domani! Questa è la domanda».
Il domani che Cathy immagina con quel tessuto vocale capace – scriveva Mark Swed, del Los Angeles Time – di rendere “naturale ciò che non lo è”.
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