“L’Islam non distingue fra politica e religione. Ma non dobbiamo temerlo”
Samir Kahlil Samir, ospite di un convegno a Villa Cagnola, è uno dei massimi conoscitori del mondo arabo di fede cristiana. In questa intervista racconta cosa sta succedendo in Medio Oriente senza nascondere la paura per il terrorismo dell'Isis
Padre Samir Kahlil Samir è uno dei massimi conoscitori del mondo arabo di fede cristiana. Nato al Cairo nel 1938, diviene gesuita nel 1955. Dopo aver fondato alcune scuole di alfabetizzazione nell’alto Egitto e al Cairo, negli anni ’70 inizia un imponente lavoro di classificazione e raccolta dei principali autori arabi di fede cristiana nel tentativo, come dice lui stesso «di creare un ponte tra l’Islam e il Cristianesimo». Dal 1975 al 1986 insegna Pontificio Istituto Orientale a Roma e nel 1986 è richiamato in Libano, dove crea il Cedrac "Centro di documentazione e ricerca arabo crisitiane" di cui assume la direzione fino ad oggi.
Padre Samir, qual è stata la miccia che ha fatto esplodere il Medio Oriente?
«Tre anni fa, nel dicembre del 2010, in Tunisia ha preso piede il cosiddetto movimento delle primavere arabe. Purtroppo i giovani che avevano dato avvio a queste rivolte contro i regimi che li governavano, non sono riusciti a strutturarsi in un movimento politico e sono stati, loro malgrado, inglobati dai fratelli musulmani. Questo partito è riuscito, data la sua storia e la sua organizzazione, a contenere le richieste riformatrici che provenivano dai manifestanti e allo stesso tempo a frenare la spinte democratiche che li avevano mossi. Ecco da lì, credo, è iniziato tutto».
Una primavera araba era cominciata anche in Siria, lì però i manifestanti non sono stati inglobati ma massacrati.
«In Siria, a differenza che in Tunisia, Egitto e Libia, la primavera è cominciata dopo perché la dittatura alawita (una minoranza sciita) di Bashar Assad, sapeva che se avesse ceduto alle richieste della maggioranza sunnita sarebbe stata schiacciata. Per questo la repressione è stata così terribile».
Ma com’è possibile che una rivolta si sia trasformata in una guerra civile che dura ormai da tre anni senza che si riesca a intravedere una tregua e anzi con l’allargarsi della minaccia dell’Isis?
«Con l’aiuto dell’Arabia Saudita, del Qatar e della Turchia (tutti paesi a maggioranza sunnita), i ribelli sono riusciti a opporre una strenua resistenza al regime di Assad. La guerra da politica si è così trasformata in una guerra religiosa, con tutto quel che ne è derivato come l’arrivo dall’Europa di insospettabili jihadisti, l’esodo di alcuni terroristi di Al Qaeda nelle file dell’Isis e la nascita di altre formazione fondamentaliste come le brigate Al Nusra. È inoltre importante ricordare l’esodo dei profughi, quasi tre milioni di persone che stanno cercando rifugio in Giordania, Libano, Iraq e Turchia e la distruzione di oltre il 20% delle abitazioni civili».
Ci sarà un nuovo intervento armato degli Stati Uniti e di conseguenza dei suoi alleati?
«Gli americani hanno delle responsabilità enormi nella catastrofica situazione attuale, ora però si trovano in un momento difficile a causa degli errori fatti in Afghanstan e in Iraq. Hanno paura di ripetere quanto fatto e per questo penso che non si impegneranno militarmente in una nuova guerra. Credo comunque che sarebbe giusto impegnarsi per aiutare indirettamente a sconfiggere questi terroristi, tra i più brutali della storia dell’umanità. Sarebbe un decisione positiva perché la gente sul posto non ha nessuna possibilità di reprimere questa invasione».
Crede che anche l’Europa dovrebbe impegnarsi militarmente contro l’Isis?
«Quello dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante non è un problema che tocca solo l’America, ma anche l’Europa. Gli europei devono capire che un giorno questo movimento estremista può arrivare anche in Europa, tramite gli islamisti che oggi dall’Europa sono andati in Siria e in Iraq per combattere tra le file dell’Isis e di Al Nusra. Un domani il favore potrebbe essere chiesto indietro e i miliziani arabi potrebbero correre in aiuto dei fratelli europei che hanno combattuto al loro fianco in Siria. Perché dico questo? Perché il progetto del Califfato è quello di conquistare il mondo. L’Isis è realista, non sono semplici fanatici. Sono partiti dall’anello debole, l’Iraq, dove non c’era un governo forte e si sono allargati alla Siria. Ora minacciano il Libano e tutto il mondo islamico».
In questo scenario che ruolo gioca la Turchia, un tempo considerato dall’Occidente un interlocutore moderato del mondo islamico?
«La Turchia fa il doppio gioco. All’inizio delle primavere arabe Erdogan è andato in Nord Africa e in Egitto a parlare alle folle. In Egitto ha raccolto consensi dicendo: "Noi siamo islamisti moderati. Siamo musulmani e vogliamo liberarci dal kemalismo e del suo laicismo". Il tentativo di Erdogan era quello di dimostrare al mondo che una buona economia può andare a braccetto con un islamismo democratico e moderato. Dall’altra parte la Turchia ha aiutato e continua ad aiutare i ribelli siriani contro il regime di Assad».
In Egitto però la situazione è precipitata. Perché?
«Tutto ciò che va verso una "reislamizzazione" del Medio Oriente porta inevitabilmente al conflitto. Si è visto con le riforme messe in atto dai fratelli musulmani non appena hanno preso il potere. Nell’Islam non esiste una distinzione tra religione, politica e vita sociale, tutto deve rientrare in ciò che stabilisce la dottrina».
Ma in Medio Oriente chi rappresenta la vera minaccia per la stabilità?
«La minaccia arriva dai soldi del Golfo. I paesi petroliferi finanziano la costruzione di moschee in tutto il mondo islamico, dal Maghreb al centro Africa, ma oltre alle moschee finanziano decine di attività in tutti i paesi di fede musulmana. In questo modo impongono un islamismo rigido che fa proselitismi creando, è solo un esempio, frange estreme come i Boko Haram in Nigeria».
A proposito di moschee, ha sentito parlare della Lega Nord? È un partito politico che vorrebbe impedire la costruzione di nuove moschee in Lombardia. Cosa pensa di questa proposta?
«Se uno costruisce qualcosa che non disturba la vita civica, perché impedirlo? Bisogna anche ricordare che per i musulmani la moschea non è solo un luogo di culto, è anche un luogo di aggregazione, politica, dibattito. A volte di incitamento alla guerra santa».
Non è molto rassicurante.
«L’errore dell’Europa, non solo dell’Italia, è di lasciar fare tutto in nome della religione. Dobbiamo ricordare che gli Imam non sono capi spirituali, ma capi di una comunità e i loro discorsi sono anche politici. Ecco credo che proprio per questo, gli Imam dovrebbero parlare in italiano e non in arabo. In nessun paese occidentale si permette quello che succede in Europa».
Quindi controllare, non reprimere.
«Le faccio un esempio, in Egitto tutte le moschee note per le loro posizioni estremiste hanno microfoni collegati alle centrali della polizia. Si suppone un controllo? Certo. Sappiamo che il discorso dell’Imam è per metà religioso e per metà politico, nel migliore dei casi. Purtorppo l’Europa non sa niente dell’Islam. Questo è il vero rischio. L’ignoranza».
Uno dei popoli più liberali e colti del Medio Oriente, storicamente, sono i palestinesi. Con loro il dialogo c’è sempre stato, eppure da più di mezzo secolo sono ridotti alla fame. Cosa pensa di quello che sta succedendo in Palestina?
«I palestinesi liberali aperti e dotti ormai sono immigrati in Europa o in America. Chi rimane è chi non riesce a partire. La situazione dei palestinesi oggi è la più triste di tutto il Medio Oriente. Quando avevano un pezzo di terra l’hanno perso, quando avevano una casa l’hanno persa. In più sono vittime dei loro capi politici, come Hamas. Lo abbiamo visto nell’ultima guerra. Hamas pensava di fare un braccio di ferro con Israele e abbiamo visto la conseguenze. Cosa ha vinto in questo modo? Io sono un convinto "anti Hamas", non perché la causa sia ingiusta, ma perché non sanno gestirla».
E di Israele cosa pensa?
«Sono allo stesso modo "anti Israele" perché occupano una terra non loro. Quale è la loro terra? Quella decisa dalle Nazioni Unite. La frontiera è nota. Gli israeliani hanno invece spinto sempre più in la i loro confini. Solo quattro giorni fa il primo ministro israeliano Netanyahu ha confiscato 400 ettari nella Cisgiordania. Nessuno nel mondo ha protestato per questa ennesima prepotenza. Se quelli che hanno creato lo Stato d’Israele non dicono nulla, come possono i palestinesi aver fiducia nel futuro e nell’Occidente?»
Samir, ma un dialogo con il mondo musulmano è possibile?
«Il dialogo politico è molto difficile perché c’è troppa ignoranza reciproca. I musulmani non facendo distinzione tra religione e politica, non consentono un dialogo ragionevole. Invece bisognerebbe capire che un problema politico è politico, un problema religioso è religioso, un problema morale è morale. L’Islam non riconosce la libertà di coscienza di ogni individuo».
Ma lei dialoga abitualmente con le autorità del mondo arabo. Come fa?
«Se possibile instauro un dialogo spirituale. Dobbiamo sforzarci di capire che il musulmano non concepisce una vita senza fede. Nel mondo islamico non esistono agnostici o atei. Una vita senza Dio è impensabile. Chiedo quindi quale è, secondo il mio interlocutore, lo scopo della vita? Come prega e in cosa spera per il futuro. Non speriamo forse tutti in una vita pacifica e senza guerra? Esiste un terreno comune e di dialogo ed esiste per ogni essere umano, è l’Etica. È l’essere benevoli con le persone, non attraverso la propaganda, ma con lo scambio, con l’aiuto e con l’amicizia. A Milano conosco delle donne italiane che insegnano la lingua alle donne musulmane, sono diventate amiche è questo il dialogo».
Samir Kahlil Samir terrà una conferenza, stasera 5 settembre, a Villa Cagnola alle ore 21
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