Banche, le “sofferenze” non sono solo italiane

Che cosa hanno in pancia gli istituti del nostro Paese? E quelli del resto d’Europa? Perché il credito alle imprese rischia di incepparsi ancora? Lo scenario italiano è veramente peggiore di quello di altri Stati? I dati che offrono una diversa chiave di lettura del nostro sistema finanziario

Euro

Come sempre dipende dai punti di vista. Anche in vicende e situazioni apparentemente caratterizzate da verità lampanti, come quella che vorrebbe il sistema bancario italiano essere tra i più sofferenti in Europa. Le sorti del Monte Paschi prima e il recentissimo intervento pubblico del Governo su Popolare di Vicenza e Veneto Banca, con il coinvolgimento di Intesa Sanpaolo, d’altronde non aiutano a dare una diversa versione dei fatti. Eppure il giudizio non è unanime e scenari come quelli del sistema creditizio italiano si prestano a diverse interpretazioni. Una di queste è stata offerta nell’ambito del quinto appuntamento del ciclo di incontri “Approfondimenti di Finanza – Scuola d’impresa”, organizzato dall’Unione degli Industriali della Provincia di Varese. Al centro dell’appuntamento il tema del credito deteriorato in Italia e l’impatto delle nuove normative di vigilanza sulle imprese.

Intendiamoci, il convegno non ha voluto seminare tra le imprese del territorio facile ottimismo. La situazione è e rimane complessa. I numeri sugli Npl (Non Performing Loans) in pancia alle banche del Paese sono inclementi. I crediti di difficile rimborso del sistema bancario domestico sono oggi pari a 329 miliardi, il 16,7% del totale degli impieghi. Uno dei dati più alti in Europa. Per esattezza, nella classifica dei peggiori arriviamo secondi, dietro alla sola Grecia, che viaggia intorno al 47% e prima del Portogallo (16,3%). Tanto per avere dei punti di riferimento Paesi come Francia e Germania sono rispettivamente su livelli del 5,2% e 3,3%. Se ciò non bastasse, a peggiorare la fotografia è la scomposizione del credito non performante italiano. In una graduatoria a salire delle probabilità di mancato pagamento, il 3% (10 miliardi) è rappresentato da credito semplicemente scaduto, il 36% (120 miliardi) da inadempienze catalogate come solo (si fa per dire) probabili, mentre il 60% (198 miliardi) sono vere e proprie sofferenze lorde. Soldi che difficilmente rientreranno nelle casse delle banche.

A snocciolare i dati durante l’incontro organizzato dall’Unione Industriali è stato Andrea Ferretti, docente al Corso di Gestione delle imprese familiari, dell’Università di Verona e della Scuola di Formazione del Banco BPM: «Non è solo una questione di possibili ripercussioni sui bilanci delle banche – ha spiegato agli imprenditori del Varesotto -. Le regole europee impongono a copertura del credito deteriorato degli accantonamenti che in Italia ammontano al 45,3% degli Npl». In pratica si parla di una cifra intorno ai 150 miliardi di euro, fermi a copertura del rischio. Risorse parcheggiate che non verranno mai dirottate a sostegno del sistema produttivo delle imprese. O almeno fin quando (forse un decennio) le cose rimarranno così.

«È anche in questi numeri che si cela il problema della crisi del rallentamento del credito alle Pmi italiane», ha aggiunto Ferretti. Questo, però, non vuol dire che le banche italiane non sappiano prestare denaro o che in passato lo abbiano fatto peggio di quelle degli altri Paesi, come il comun sentire vorrebbe, paragonando i dati col resto d’Europa. «È vero che il fardello di credito deteriorato presente nel nostro sistema bancario è decisamente più elevato rispetto a quello riscontrabile nei sistemi anglosassoni. Ma questo non per una inadeguatezza dei nostri meccanismi di erogazione del credito, ma, banalmente, perché le nostre banche fanno un mestiere diverso rispetto alle banche dell’Europa Centrale». Quale? La risposta, dati alla mano, è: sostenere le imprese. «Le nostre banche – ha precisato Andrea Ferretti – rivolgono circa il 70% delle proprie attività al finanziamento delle piccole imprese e degli artigiani e solamente il 30% agli investimenti di natura finanziaria. Le banche anglosassoni tendono invece ad invertire queste percentuali dedicandosi, per il 70%, ad interventi di natura prettamente finanziaria e solo per il restante 30% al sostegno delle proprie imprese». La conseguenza per il docente è lampante: “In presenza di una crisi che da otto anni tartassa il mondo delle imprese, sono proprio le nostre banche ad evidenziare bilanci appesantiti da una importante massa di sofferenze». Perché le banche italiane fanno le banche e non speculazione.

Ciò che troppo poco spesso viene sottolineato è, però, che i bilanci delle banche anglosassoni non sono poi così al riparo grazie al basso tasso d’incidenza delle sofferenze sugli impieghi. Non prestare i soldi alle imprese, non le rende immuni. «Le molte operazioni di finanza pura – ha spiegato Ferretti – hanno riempito gli attivi di bilancio di questi istituti stranieri di una preoccupante massa di derivati e di poste di assai dubbia valutazione. Le cosiddette poste di livello 3, che in caso di default rischiano di far letteralmente evaporare i patrimoni di molte banche, anche tedesche». Come dire: attenzione a indicare nell’Italia il problema bancario d’Europa. Perché se nel nostro Paese queste poste di livello 3 rappresentano il 9% degli attivi di bilancio dei principali istituti bancari, nel Nord Europa in generale arrivano mediamente al 24,5%, con punte del 42% proprio in Germania, dove i derivati rappresentano ben il 32,5% dell’attivo di bilancio (contro il 9,5% italiano).

Altro mito da sfatare? Un sistema, quello finanziario italiano, troppo sostenuto dagli acquisti di bond sovrani da parte della Banca Centrale Europea. Peccato, però, che a febbraio 2017 quelli italiani in pancia alla Bce fossero pari a 233miliardi, contro i 338 di quelli tedeschi e i 258 di francesi.

E poi ancora: quello italiano è un sistema bancario veramente troppo frammentato rispetto a quello degli altri Paesi europei? Anche qui i numeri restituiscono un’altra realtà. In Francia le banche sono 580, più o meno lo stesso dato dell’Italia dove se ne contano 611, di cui 368 banche di credito cooperativo. In Germania? Il dato è di 1.735 istituti.
Infine va ricordato un aspetto, per la verità già conosciuto, ma che è bene ribadire, soprattutto di questi tempi dove troppo spesso l’Italia è tentata di auto-flagellarsi. Perché, pur con tutti i suoi difetti, il sistema del credito italiano oggi può dire di essere quello che, negli anni di picco della crisi economica, ha meno sostenuto con soldi pubblici le proprie banche. Quando le normative europee lo permettevano, la Germania ha iniettato nel proprio sistema 247 miliardi, la Gran Bretagna 136 miliardi. L’Italia solo 4. Anche aggiungendo a questi i 20 miliardi messi dal Governo a sostegno di Monte dei Paschi i livelli tedeschi sono ben lontani. E tali rimangono anche aggiungendo le risorse stimabili tra i 5 e i 17 miliardi che rimarranno in capo al Governo quando si chiuderà la recente operazione sulle banche venete.

La chiosa di Andrea Ferretti è semplice: «Siamo ancora lontanissimi dai generosi aiuti statali concessi da chi oggi, non certo con disinteresse, ci mette sul banco degli imputati». L’Italia è l’unica che ha il dovere di starci, dunque? Questioni di punti di vista.
«Ma un nuovo fenomeno si sta affacciando nella raccolta di risorse a favore delle imprese, che potrebbe anche inserirsi nel filone di cambiamento del rapporto banca-impresa. Parliamo – spiega Marco Crespi, responsabile dell’Area credito di Univa – della disintermediazione bancaria attraverso una raccolta diffusa di fondi, utilizzando sistemi di crowdfunding o, meglio, di crowdinvesting. Di cosa si tratta? Come funzionano? Di queste nuove tematiche che investono anche la sfera della cosiddetta fintech (finanza tecnologica) daremo ampia informazione nel sesto appuntamento degli Approfondimenti di Finanza – Scuola d’Impresa, previsto per le ore 15 del prossimo 14 settembre nella sede di Gallarate dell’Unione Industriali».

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Pubblicato il 03 Luglio 2017
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