Il mio Egitto, di Sara Riboli

Il racconto del viaggio e della permamenza in Egitto di una ragazza di Daverio: "C’è qualcosa di inaccessibile al Cairo per lo straniero, che ti butta a terra ma al tempo stesso alimenta il desiderio di scoperta"

Il mio Egitto (di Sara Riboli)

Dopo un mese e mezzo, proprio quando le cose stavano finalmente per decollare, è giunto anche per me il momento di prendere il volo, verso casa.

Così come è stato difficile arrivare, anche andarmene dall’Egitto non mi ha risparmiato nessuna fatica. Ho vissuto le ultime ore al Cairo nel delirio più totale, tra chi mi diceva che avrei potuto cambiare i soldi all’interno dell’aeroporto, chi non ne sapeva niente e la polizia che metteva a tacere qualsiasi tipo di mia lamentela, con sguardo minaccioso. Ho capito che anche lì, pur potendo finalmente parlare una lingua comune a chi mi stava di fronte, pur trovandomi in un contesto protetto, in cui si suppone che le regole siano uguali per tutti, era meglio tacere e tirare fuori gli ultimi soldi rimasti, come sempre.

Al Cairo il soldo la fa da padrone, non c’è cartello che tenga. Se il museo è chiuso e vuoi entrare basta che allunghi la mano con qualche banconota. Se ti ferma la polizia per la strada idem, non c’è bisogno di aprire bocca. Se pensi di trovare un’auto con il taximetro in funzione, rimarrai a piedi per ore. E quando ti chiederanno di togliere le scarpe all’ingresso della moschea, dovrai pagare qualcuno che te le sorvegli, nella speranza di trovarle di nuovo.

Giravo spesso tra i souq della città vecchia, in compagnia di amici egiziani, convinta che fare acquisti con qualcuno del posto fosse la cosa migliore. Quando su mia sollecitazione un amico chiedeva il prezzo di qualcosa al venditore, la risposta arrivava sempre allo sguardo del mio accompagnatore, mai al mio, e gli si chiedeva di aggiungere, a sua discrezione, le commissioni che voleva ricavarne dall’acquisto. Ogni volta mi stupivo che l’amicizia che gli si palesava di fronte, non fosse di ostacolo alla possibilità di ricavarne qualcosa, da entrambe le parti.

Sono partita per prendermi finalmente un tempo per me, per realizzare un sogno, per investire sul futuro lavorativo che vorrei. Dopo la laurea in Psicologia di Comunità e l’esperienza biennale in terra turca, il mio interesse per la diversità culturale, oltre che individuale, si è fatto più acceso e, viaggiando, ciò che vorrei fare da “grande” ha assunto contorni più definiti: credo di poter interpretare al meglio la mia professione di aiuto in un contesto dove il bisognoso sia il migrante, in fuga dalle zone di instabilità del Nord Africa e del Medio Oriente, in cerca di un futuro dignitoso per sé e i propri cari. Sono convinta che tutte queste persone, portatrici di un capitolo drammatico della propria storia, abbiano bisogno di raccontarsi, di dare voce alla disperazione e di esprimere le loro preoccupazioni per un futuro incerto. Credo che questo aspetto non vada dimenticato quando siamo di fronte a qualcuno da accogliere, oltre alla preoccupazione di fornirgli un tetto e qualcosa da mettere sotto i denti. So che esistono vissuti dell’animo che non conoscono ragioni, so che il dolore ha una dimensione privata e spesso inaccessibile, so che di fronte alle immagini della guerra o di un viaggio in mare che ha preso con sé tantissime vite, si provano emozioni che non trovano corrispettivi esaustivi nelle parole, ma ho sempre pensato che imparare la lingua araba sarebbe stato uno strumento in più per ridurre la distanza tra me e loro, per creare uno spazio di ascolto sincero.

Ho studiato l’arabo per due anni grazie a un validissimo corso organizzato dall’Università Cattolica di Milano; uno studio interessato ma scostante per via dell’esigenza di lavorare. Dentro di me, fin dai primi approcci a questa lingua così ardua, pulsava forte un desiderio di immergermi nei suoi suoni, tuttora per me tanto difficili da pronunciare nel modo corretto, e di avvolgermi nella sue lettere, affascinanti come un’opera d’arte che si sta dispiegando. Con il prezioso aiuto del mio Professore di Milano, ex docente presso l’Università Americana del Cairo, sono riuscita ad ottenere un corso intensivo e che rispondesse alle mie esigenze di apprendimento, presso l’Università del Cairo.

Sono partita impreparata, di corsa, ma consapevole di ciò che stavo per fare e con il cuore aperto a lasciarmi sorprendere. A differenza dell’Erasmus, esperienza di vita più che di studio, questa volta ero determinata a concentrarmi nello studio e a lasciare meno tempo possibile a tutto il resto. Il Cairo, in questo mese e mezzo, ha capovolto i miei obiettivi, aggiungendo punti interrogativi alle domande con cui sono partita, spremendo tutte le mie energie e mettendomi alla prova giorno dopo giorno, fino alla fine.

Le esperienze negative che ho vissuto sono state senza dubbio innumerevoli. Non parlo di ritardi sui mezzi di trasporto, né di disservizi urbani come possono essere la mancanza di acqua corrente per qualche giorno, le montagne di spazzatura per la strada, la sporcizia ovunque; queste sono cose che ci si aspetta e a cui si è preparati quando si va in una metropoli, specialmente in terra Africana. Parlo delle volte in cui mi sono sentita mancata di rispetto, fregata, violentata con lo sguardo. Negli anni sono sicura di aver sviluppato un buono spirito di adattamento, anche per gli svariati contesti in cui mi sono ritrovata a lavorare e quelli in cui, viaggiando, sono stata ospite. Ancor prima, gli studi universitari sui rapporti interpersonali, avevano affinato la mia capacità di empatia e tolleranza. Lavorando coi bambini poi, si impara ad avere una pazienza sovraumana.

Ma al Cairo tutto ciò sembra non essere mai abbastanza. In città si respira senza dubbio un’aria di insoddisfazione e rassegnazione al fatto che la condizione attuale sia peggiore di quella di prima. Il linguaggio della rivoluzione è andato perso completamente, come se nessuno avesse più nulla da dire a riguardo. Le speranze, i sogni, le intuizioni per un mondo possibile sembrano essere state messe a tacere completamente. E queste parole prive di voce, chiuse definitivamente in un cassetto di cui non si trova più la chiave, sembrano emergere nel rapporto quotidiano con l’altro, traducendosi in un sentimento di sfiducia verso chi si ha di fronte, in una competizione per la sopravvivenza che non guarda in faccia a niente e nessuno. Se si stesse a guardare lo scenario senza farne parte, gli si darebbe un solo titolo: mors tua, vita mea.

Credo di essere stata spesso e volentieri un capro espiatorio di questa enorme frustrazione che anima la situazione egiziana attuale. È raro vedere un turista europeo tra le strade del Cairo, figuriamoci una donna occidentale da sola, che si suppone indipendente anche dal punto di vista economico. Fin da subito sono stata relegata nella condizione di chi ha qualcosa da dare, sempre e comunque, come una fonte inesauribile da cui attingere.

Sono partita per migliorare il mio arabo, per trasformarlo in una chiave d’accesso ai sentimenti dell’altro, al contrario mi sono sentita bisognosa di aiuto e completamente sottomessa alle condizioni della città. C’è un imperscrutabile destino che anima la vita al Cairo, per cui se le cose oggi vanno bene è “Grazie a Dio”, “Alhamdulillah”, se vuoi pianificare di fare qualcosa l’indomani, accadrà solo “Inshallah”, “se Dio vorrà”. La fede pervade la vita degli Egiziani, e nella maggior parte dei casi non lo fa in maniera rigida o autoritaria. Con naturalezza tutti si affidano al volere di Dio, consapevoli del destino impenetrabile che li accomuna. La sensazione prevalente è quella di trovarsi tutti sulla stessa barca, nella miriade di problemi che affliggono la realtà quotidiana; non ci si stupisce più di niente, perché tutto ciò che accade non conosce ragioni, oltre a Dio. Cercavo di affinare uno strumento di intervento sul bisognoso di aiuto, ma ho capito che prima di questo c’era ancora un enorme lavoro da fare su di me, di accettazione di qualcosa di scomodo.

Non c’è dubbio che io sia stata straniera in una terra lontana e diversa, ma fin da subito mi era chiaro che sarei tornata nella mia. Non è mai facile partire, lasciarsi alle spalle abitudini che si conoscono, per confrontarsi con un mondo nuovo e sconosciuto. Non ci si può aspettare che tutto rimanga immobile fino al nostro ritorno, mentre salutiamo gli affetti e mettiamo in pausa la pratica dei legami. Andarsene è accettare una frattura e aver il coraggio di far continuare la propria storia, intrecciando i fili delle nuove esperienze con la nostra identità più remota. Qualsiasi separazione è dolorosa, ma io ero entusiasta all’idea di iniziare qualcosa di nuovo. Fin dal mio arrivo e per diversi giorni, invece, avevo provato rabbia di fronte a tutte le volte che non mi avevano capita, che ne avevano approfittato, che mi avevano mentito ed era un sentimento che strideva con quello che avrei voluto fare nel mio Paese, al mio rientro. Era in atto un cambiamento nella mia vita, pensavo di lavorare con le emozioni degli altri, ma dovevo fare prima pace con le mie. Ero io a dover affrontare la fatica di far convivere, dentro e fuori di me, la mia essenza, le mie origini con il Paese che mi stava ospitando.

Sono stata testimone diretta del disagio di una città, delle sue tacite leggi; ho dovuto indossarne gli abiti scomodi e le consuetudini così lontane dalle mie. Mi ero addentrata nella diversità in punta di piedi e con voce sommessa, sentendomi sempre fuori luogo o al posto sbagliato, ma avevo dimenticato la dimensione umana: era giunto il momento di assumere uno sguardo aperto sulle singole persone, per riscoprirne la ricchezza, la bellezza, l’inesauribile diversità e la sorprendente comunanza di alcuni aspetti. Solo il contatto con l’altro mi avrebbe permesso di eliminare le immagini astratte e irrealistiche in cui l’avevo inserito. Dovevo dipingere con nuovi occhi quelle immagini che erano state così vivide nel mio quotidiano. Non potevo più fuggire dalla gente, né relegare le mie giornate in incontri sfuggenti, superficiali e di contingente necessità. Dovevo rimettermi in gioco, cercare nuove sintonie con il mio essere, perché non sarei mai potuta tornare a casa ad aiutare nessuno, con un conto in sospeso del genere verso me stessa.

Ha smesso di infastidirmi il sorriso dell’Egiziano di fronte a uno straniero, al contrario mi sentivo onorata di fronte agli occhi luccicanti della gente quando scoprivano che stavano parlando con un’italiana. Quante rapide associazioni alle bellezze del mio Paese, senza che le avessero mai viste di persona. Quanti racconti su amici e parenti lontanissimi che hanno viaggiato, vissuto e amato l’Italia. Quante volte le ragazze per la strada mi hanno fatto sentire una celebrità per i selfie che di continuo volevano immortalare con me, con i miei capelli sciolti, con i miei colori sui vestiti. Invidiavano la mia libertà dal velo, le scarpe italiane, il mio inglese apparentemente fluente. La stanchezza, la rabbia, la durezza che avvertivo nei miei confronti da parte della città, mi stava facendo perdere di vista tutto questo spazio di comunanza, questa vicinanza tra me e la gente.

Questa volta ero io ad approdare in terra straniera, e stavo vivendo le stesse difficoltà di chi migra in una cultura che non gli appartiene. Volevo solo prenderne in prestito la lingua, per i miei obiettivi, godere del suo sole ancora estivo e pretendevo che tutto rispondesse perfettamente ai miei bisogni, ma lo sconforto mi aveva privato della capacità di cogliere molteplici occasioni di scoperta e aveva creato un confine netto tra me e gli altri.

Avevo imparato e riscontrato nei migranti che non li si può privare delle difficoltà, né della paura, né del senso di alienazione che riserva loro il nuovo mondo. Sapevo che insieme a tutto questo, però, anche l’ottimismo e la speranza accompagnano un viaggio di scoperta o di aspettative per una vita migliore. E sono gli amici, il lavoro, le passioni che fanno della fatica un peso che vale la pena sopportare. Le stesse cose a cui avevo momentaneamente voltato le spalle prima di partire, erano le stesse di cui avevo bisogno per costruire una permanenza sostenibile. Dovevo alleggerire quel peso che mi portavo dietro fin dai primi giorni della mia permanenza al Cairo, quel senso di estraneità tra me e la città; per farlo dovevo ripartire dalle persone, le stesse di cui amavo ascoltarne e scriverne la lingua. Ed è proprio tra la gente, nei luoghi ormai consueti, nella realtà contingente che si è fatto spazio lo straordinario.

Sono stata fortunata ad incontrare Basma, una sera, uscendo dall’ascensore di un palazzo. Mi ha sentito parlare italiano e il suo volto si è illuminato con un sorriso. Da tanto tempo cercava qualcuno con cui chiacchierare nella lingua che aveva studiato per anni, pur non uscendo mai dal suo Paese. Incontro dopo incontro, ancora mi stupivo di come lo parlasse in modo eccellente, di come fosse determinata a comprendere anche le espressioni più buffe e cadute in disuso, pur di far propria la lingua italiana e avvicinarsi sempre di più al sogno di visitare l’Italia. Con lei mi è sembrato tutto più semplice, dopo qualche settimana. Che sensazione di leggerezza poter raccontare le sventure della giornata nella mia lingua, piangere spiegando il motivo, fare una battuta e ridere insieme perché spontanea e condivisa.

Per caso ho conosciuto anche Karim e finalmente ho trovato qualcuno con cui condividere una birra fresca, la sera, in riva al Nilo. Ed è proprio in una serata di quelle che mi ha raccontato della sua paura di fotografare la città dopo la Rivoluzione, di essere fermato dalla polizia con domande insistenti, di essere portato chissà dove. I suoi scatti del passato avevano catturato istanti d’amore, di gioco, di vita vera. Io avevo dimenticato la mia reflex a casa e lui doveva ritrovare il coraggio di esprimersi. Accanto a me, che potevo sembrare una turista qualunque, ha ripreso in mano la sua macchina fotografica, e insieme abbiamo spolverato angoli magici della città,dalla sabbia, ma anche dai preconcetti che avevano offuscato la mia mente dalla vista di tante meraviglie. Ero davanti e dentro a tanta bellezza, ma per giorni il mio sguardo era rimasto fisso su di me. Finalmente avevo occhi nuovi con cui guardare i mille minareti, con cui scrutare la fatica di artigiani minuziosi e con ascoltare la voce confusa della città. Se la polizia ci avesse fermato, non avremmo avuto altro da mostrare che tramonti mozzafiato, vedute incantevoli e attimi di felicità.

Ho continuato ad essere oggetto di discriminazione, in quanto donna, miscredente, o semplicemente “diversa” per qualcosa, ma sono ferite che pian piano facevano meno male perché colpivano in mezzo a tanto rispetto, gratitudine e umanità. C’è qualcosa di inaccessibile al Cairo per lo straniero, che ti butta a terra ma al tempo stesso alimenta il desiderio di scoperta e ti dà la forza per non arrenderti. Ho provato sulla mia pelle la durezza dell’adattamento, l’accettazione dell’incomunicabilità di certe cose, la dimensione privata del dolore. Sono ancora molto lontana dal poter comunicare con un migrante nella sua lingua, ma sono più capace di prima ad accogliere il suo sguardo, ad avvicinarmi a lui, a sondare la sua persona in quanto unica. Auguro a Karim di poter continuare a immortalare le bellezze della sua città anche senza di me, alla mia coinquilina Iren di non dover lavorare più giorno e notte per dare da mangiare ai suoi bimbi e pagare loro la scuola. Ringrazio il mio professore Ishem, per la sua pazienza infinita, per la sua eccezionale puntualità. Lo ringrazio per avermi fatto studiare anche di notte, pur di non esaurire gli interrogativi e spero che realizzi il sogno di tenere una lezione a Milano, perché io sarò in prima fila. Intanto aspetto Basma, che verrà presto a trovarmi e spero s’imbatterà anche lei in qualcosa di straordinario, per le strade della mia città.

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Pubblicato il 21 Maggio 2018
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