Il (mezzo) passo falso dei Pink Floyd
Con un doppio tra live e studio il gruppo fece troppa confusione
Ma tutti i dischi mitici di quel periodo erano davvero dei capolavori? Quasi tutti. Un’eccezione, seppur parziale, fu Ummagumma dei Pink Floyd: parziale perché, sul modello di Wheels of fire dei Cream, era un doppio formato da un disco in studio e uno dal vivo. Per quello in studio decisero che ogni membro del gruppo componesse dei pezzi: il risultato fu un casino. Tranne pochi pezzi piacevoli – in generale quelli cantati – il resto è una sorta di musica sperimentale noiosa e senza molto capo né coda. Ma ho detto che fu un’eccezione parziale perché invece il disco live è davvero notevole, ed è l’unica testimonianza ufficiale – insieme al concerto di Pompei del 1971, che però non uscì su disco – di che cos’erano dal vivo i Floyd psichedelici, senza i grandiosi mezzi che usarono in seguito. Il repertorio è quello della seconda formazione del gruppo, anche se un pezzo, non a caso di Barrett, appariva nel primo disco. Siamo in realtà agli albori della svolta più elettronica, che richiedeva tastiere con tecnologie sempre più sofisticate, e qui c’è fortunatamente ancora molto spazio per chitarra, basso e batteria. Ma i temi dello spazio (Astronomy domine, Set the controls…) sono dominanti: non dimentichiamoci che siamo sempre nell’anno dello sbarco sulla luna e del suo enorme impatto sulla coscienza collettiva. Interessante, come dicevo settimana scorsa, vedere affinità e differenze con la psichedelia californiana della Dark Star dei Grateful Dead.
Curiosità: i Floyd nel corso del tempo furono molto autocritici su Ummagumma (che in slang sta per atto sessuale). Roger Waters lo definì un disastro; David Gilmour addirittura orribile; Richard Wright un esperimento fallito, aggiungendo che il suo maggior pregio fu quello che non rifecero più nulla del genere!
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