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Dietro le sbarre: come morire di pena nella “discarica sociale” del carcere italiano 

A Materia Spazio Libero Alessandro Trocino ha presentato "Morire di pena". Una riflessione su suicidi, nonnismo, sovraffollamento e mancanza di formazione. Emerge il fallimento della legalità dietro le sbarre

Presentazione del libro di Alessandro Trocino

«L’unica arma che ha a disposizione un detenuto è il suo corpo». Ed è così che il carcere miete vittime. Si tratta di una vera e propria discarica sociale: «Quando la società non è più in grado di occuparsi di una certa fascia della popolazione, la abbandona in carcere, nonostante la Costituzione preveda la rieducazione e il reinserimento del condannato».
In un carcere dove c’è più fragilità che criminalità, si raggiunge il record di suicidi.

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A Materia Spazio Libero la presentazione del libro di Alessandro Trocino “Morire di pena” 4 di 14

Così il giornalista Alessandro Trocino decide di rompere il silenzio e raccontare un tema nascosto, perché “il carcere è come lo facciamo noi”.

Il silenzio nasconde un gigante

«È la prima regola che ti insegnano da giornalista: se non è un personaggio famoso, non se ne parla. I suicidi non fanno notizia. Al massimo si trovano due righe in qualche testata locale. La morte è qualcosa di cui non vogliamo sapere, a meno che non diventi un giallo, come nel caso di Garlasco. Le carceri ci sembrano qualcosa di lontano».

Alessandro Trocino decide di infrangere questa regola e concentra il suo focus sulle carceri italiane. «Mi occupo da anni di giustizia e carcere, mi sono laureato con una tesi sulla pena di morte, ma i numeri e le analisi non bastavano più. Mi annoiavo da solo. Serviva altro. Servivano le storie».

Nasce così Morire di pena, dodici cronache «profonde, vere e nascoste, che raccontano un carcere che anche io non conoscevo».

Nonostante qualche iniziale titubanza da parte dell’editore Laterza, il libro prende forma per «raccontare le storie di queste persone, che sono forti – anche troppo, a volte – e ci consentono di entrare nelle carceri. Ecco il ponte tra dentro e fuori».

«Non è un libro sulla disperazione, ma sulla possibilità di cambiare –  afferma il giornalista – La narrazione è rispettosa delle famiglie e delle volontà delle persone coinvolte, ma emerge l’importanza del dato di cronaca e di conoscenza, senza indugiare in particolari che dicono poco».

Un libro vero e duro

La narrazione delle storie parte dal cosiddetto faldone e termina con l’autopsia del corpo del detenuto. Paolo Cassani, rappresentante di Oblò Teatro e Associazione 100eventi, osserva che il dettaglio è estremo, sia nel prima che nel dopo. Le fonti sono spesso parenti – in particolare sorelle e madri. C’è chi vuole raccontare per ottenere giustizia; altri preferiscono ricordare il proprio caro in modo edulcorato e solo positivo.

Il carcere non è solo di chi è dietro le sbarre

Il carcere fa male. Le storie non riguardano solo i detenuti. Gli agenti di polizia penitenziaria sono tra i soggetti che tessono relazioni sociali dietro le sbarre, ma anche tra loro si contano vittime, perché il carcere, oggi, è l’opposto di ciò che dovrebbe essere.

«Da luogo della legalità massima, è diventato un’istituzione totale, chiusa, dove regna l’opacità. Non sappiamo cosa succede realmente, né ai detenuti né agli agenti. Questo clima favorisce l’illegalità e la sopraffazione, in un contesto simile a quello militare: caserme, nonnismo, prevaricazioni».

L’organico è scarso, e «oggigiorno la formazione è stata ridotta a pochi mesi, praticamente dimezzata: mettere persone non formate in quel contesto è la condizione ideale perché le cose non funzionino».

«Il carcere è un inferno: gli agenti potrebbero essere scambiati per detenuti se non fosse per l’uniforme. La situazione è insostenibile». Eppure il carcere dovrebbe essere «il luogo della legalità massima». E invece «è un’istituzione totale dove regna l’omertà. Anche chi ci lavora subisce: agenti penitenziari, educatori, volontari».

L’intento dell’autore non è processare agenti o direttori dividendo i ruoli tra buoni e cattivi, ma denunciare «un sistema chiuso e omertoso, di fatto, anche al di là delle intenzioni. Chi denuncia, nel migliore dei casi, viene cacciato».

Il carcere non è il luogo dei cattivi. «Il 20-30% dei detenuti è in custodia cautelare: potrebbero essere innocenti. E comunque non è detto che noi saremo sempre i buoni».

Non criminali, ma poveri: la verità sulla popolazione detenuta

Trocino è netto: «I detenuti non sono criminali incalliti, ma poveracci. Migranti, tossicodipendenti, persone con disturbi mentali. In carcere finisce chi è fragile, non chi è pericoloso». Ecco che il carcere italiano è diventato una discarica sociale.

Il dato è chiaro: il 70% di chi esce dal carcere ci rientra. «La recidiva si combatte con il lavoro, lo sport, la cultura. Gli imprenditori della paura alimentano l’idea che ci sia un crimine devastante, da combattere solo con la repressione. Così si genera un circolo vizioso tra opinione pubblica e politica. Si investe solo sulla repressione. Ma fare la faccia dura non è sicurezza».

Il contesto attuale vede un aumento delle fattispecie di reato e un inasprimento delle pene. «Con il governo Meloni sono stati introdotti oltre 60 nuovi reati: il cosiddetto ddl sicurezza considera persino la resistenza passiva come reato, anche solo per non essersi spostati un po’ più in là se il comando arriva da un agente».

I numeri ufficiali non rendono giustizia al fenomeno

I tentati suicidi non vengono conteggiati, così come i decessi per “cause da accertare” che spesso non vengono mai accertate. E quando non si interviene in tempo, “succede solo che si suicidano davvero”.

In carcere il suicidio non è mai una scelta davvero libera: è il risultato di concause.Il libro rende il contrasto tra la “carne viva” delle persone e l’ottusità di certi percorsi burocratici.

Il suicidio è più frequente tra chi ha pene minime, spesso appena entra o poco prima di uscire, senza alcuna possibilità di reinserimento sociale, marchiato per sempre dallo stigma.

La soluzione? Non l’edilizia carceraria.

Trocino fa leva sull’umanità, ma ricorda anche una prospettiva utilitaristica: «Se c’è rieducazione, è meno probabile che ti rapinano o ti uccidano». La soluzione per lui non è l’edilizia carceraria: «È uno slogan falso: l’edilizia carceraria è lunga, complicata e costosa. Ci vorrebbero almeno dieci anni, e non ci sono i soldi».

Amnistia e indulto furono soluzioni adottate nella Prima Repubblica, ma oggi il vento è cambiato: «Se chiedessi una misura simile non dico a Meloni, ma persino a Schlein, farebbe finta di non conoscermi: significherebbe perdere voti».

«Negli anni Settanta c’era maggiore sensibilità, si può auspicare un ritorno».

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Pubblicato il 28 Maggio 2025
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