L’Italia vince la Coppa Davis, conferma di una grande squadra (anche con le assenze)

L’Italia ha conquistato la Coppa per la terza volta consecutiva, ha battuto anche la Spagna in finale dopo una settimana di grandi emozioni

Coppa davis

L’Italia ha conquistato la Coppa Davis, ha battuto anche la Spagna in finale dopo una settimana di grandi emozioni. Una finale con le nazionali dei giocatori numero 1 e numero 2 del mondo, Alcaraz e Sinner, che non facevano parte della squadra ufficiale. Due nazionali arrivate a fronteggiarsi nell’ultimo capitolo della Davis senza i loro leader a conquistare punti. Leader che hanno sostenuto moralmente i loro compagni e li hanno lasciati  diventare grandi senza di loro. Infatti, la vera vittoria di questa Coppa Davis non è il trofeo conquistato dall’Italia: è il percorso, è la squadra che è emersa. Soprattutto per l’Italia è stata la trasformazione, collettiva e individuale, che ha reso possibile questo trionfo. La battaglia finale è arrivata, come ogni racconto archetipico insegna, al culmine di un viaggio lungo e tortuoso. E come ogni grande racconto, il premio non è solo la coppa: è l’elisir. Un dono che cambia chi lo riceve. Che segna il ritorno.

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Come scrivevamo in uno degli scorsi articoli, quando Sinner annunciò la sua assenza, la sfida più grande non era vincere senza di lui. Era dimostrare che questa era davvero una squadra. Che i nomi contano fino a un certo punto, e che ciò che conta davvero è il percorso condiviso. Oggi, quella sfida è stata vinta. Prima della coppa. E al di là del risultato. Ma vediamo chi c’è dietro questo percorso che ha portato fino a qui.

Il primo nome da fare è quello di Matteo Berrettini, l’uomo Davis. Una stagione segnata da infortuni, rientri difficili, momenti opachi. Eppure, c’è stato. Non solo con la racchetta, ma con la testa, il cuore, la voce. Ha sostenuto il gruppo, è diventato la sua bandiera, simbolo di appartenenza e passione. Il suo legame con Flavio Cobolli, nato anni fa quando quest’ultimo gli portava le racchette da bambino, è diventato oggi immagine viva della trasmissione, del passaggio di valori. Berrettini ha dimostrato che la leadership non si misura con il ranking, ma con la presenza.

Poi c’è Flavio Cobolli, 23 anni, catapultato nella Davis come numero 1 italiano disponibile. Una responsabilità enorme, affrontata con maturità sorprendente. Ha giocato, ha parlato, ha agito sempre al plurale. Nelle dichiarazioni post-partita, mai una parola fuori posto, mai un accento sull’“io”. E quel video, tornato virale, in cui da bambino portava le racchette a Berrettini adolescente, è diventato il simbolo di questa Davis: il cerchio che si chiude, la crescita che si compie.

Simone Bolelli e Andrea Vavassori, tra i più forti doppisti del circuito, sono gli eroi silenziosi. Penalizzati da un formato di Davis che spesso riduce il loro spazio, non si sono mai tirati indietro. Sempre pronti, sempre presenti. Con l’esperienza, con il sacrificio, con il valore più difficile da trovare nello sport professionistico: la disponibilità. Non solo a scendere in campo, ma a esserci. Per la squadra.

Filippo Volandri, il capitano. Da cinque anni guida la nazionale, spesso criticato, mai davvero celebrato. Oggi è lui l’uomo del giorno. Non perché ha vinto, ma perché ha costruito. Ha fatto scelte coraggiose, come l’anno scorso con Fognini, ha creduto nei giovani, ha creato un gruppo che non dipende dai suoi campioni. Volandri non è il capitano per caso di una generazione d’oro: è l’artefice di un progetto. La sua leadership silenziosa è diventata colonna vertebrale.

E sì, resta il risultato. Finale o Coppa vinta, cambia poco. Questa è Storia con la esse maiuscola. È il viaggio del tennista nella sua versione corale. Perché anche senza i due nomi più forti, Sinner e Musetti, il gruppo ha risposto. Ha tolto pressione a Sinner, alleggerendo il peso di un’intera nazione. Ha risposto a chi pensava che senza il numero 1 non si potesse andare avanti. Ha riscritto il significato di squadra in uno sport solitamente letto solo al singolare.

Il vero elisir, come scriviamo nella tesi, non è il trofeo, ma “la trasformazione profonda e collettiva, che rende possibile il ritorno alla normalità con una consapevolezza nuova”. Quella consapevolezza l’ha conquistata un gruppo di ragazzi che oggi è diventato un simbolo per milioni di appassionati. E anche per chi si è appena avvicinato a questo sport.

In un tempo in cui si tende a idolatrare il singolo, la squadra azzurra ha compiuto due miracoli. Il primo: ha alleggerito la figura di Sinner, facendolo sentire parte di un gruppo e non un uomo solo al comando. Il secondo: ha mostrato che il vero fenomeno del tennis italiano è la squadra.

Questa è la vera Coppa. Questo è l’elisir. Questa è la tappa che ci ricorderemo. Mi piace pensare che Sinner e Alcaraz abbiano guardato in diretta le loro due nazionali fronteggiarsi, ed essere orgogliosi dei loro compagni che hanno compiuto l’impresa, senza di loro. È questo quello che ha fatto grande la Coppa Davis del 2025: ha sancito definitivamente che il tennis è anche uno sport di squadra, per i presenti, e per gli assenti.

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Manuel Sgarella
manuel.sgarella@varesenews.it

 

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Pubblicato il 23 Novembre 2025
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