Il soul sensuale di Al Green
Dopo un 45 giri da due milioni e mezzo di copie arrivò un ottimo album
Ogni tanto facciamo un salto nella musica soul, e stavolta è per incontrare un cantante che, già secondo le critiche dell’epoca, era destinato a raccogliere il testimone lasciato da due grandissimi, entrambi purtroppo già scomparsi: Otis Redding e Sam Cooke. In effetti le sue capacità vocali erano notevoli, ed era capace di passare nello stesso brano dal crooning, allo shout, a morbidi falsetti: ma forse il fatto che componeva – da solo o in compagnia – quasi tutto il materiale che cantava, lo rendeva comunque molto personale e identificabile. Questo album arrivò sull’onda di due milioni e mezzo di copie vendute dal singolo con il pezzo omonimo, ma fortunatamente non fu eccessivamente improvvisato, come avveniva spesso in questi casi. La casa discografica puntò molto sulla sua versione di “How can you mend a broken heart” dei Bee Gees, che francamente era un po’ troppo lunga e melensa, mentre brani come “It ain’t no fun to me” o “Old time lovin” , oltre ovviamente alla title track, sono molto migliori. Certo che sembra che il soul non evolvesse molto: sentendolo per la prima volta, seppur molto bello, vi sfido a dire che non era un disco del ’68 o ’69. Incontreremo presto un importante innovatore.
Curiosità: nel 1976, pare anche in seguito al trauma per il suicidio della sua compagna, Al Green diventò un Pastore Battista e musicalmente svoltò verso il gospel e la Christian Music. Pur continuando l’attività religiosa, che va avanti tuttora, abbandonò il genere e ritornò al soul solo a fine anni ’80, ripartendo con un duetto con Annie Lennox.
La rubrica 50 anni fa la musica
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