La mano dello yeti e un the scaldato dal sole dell’Himalaya
Nel trekking verso il campo base dell'Everest il gruppo di varesini si concede anche qualche deviazione. Perché ogni angolo del Nepal regala qualche curiosità

Da Varese fino al campo base dell’Everest, a 5364 metri di altitudine: è l’avventura a cui si prepara un gruppo di varesini, guidati da Ngima, guida nepalese che da vent’anni vive in provincia e che porta avanti escursioni, ma anche progetti solidali nelle valli del Paese d’alta quota
Giorno 7
La mattinata inizia con una splendida vista sul monte Everest. Cominciamo l’ascesa verso il prossimo villaggio, come sempre circondati dagli yak e dagli abitanti dei villaggi, sempre sorridenti. Per i bambini locali siamo noi l’attrazione, ci filmano come noi facciamo col paesaggio.
All’improvviso Ngima ci propone una deviazione. Scopriamo che in un monastero a qualche metro di dislivello da noi (per il nostro sherpa “monostory”) sono conservate, udite udite, la testa e la mano dello yeti. Per puro spirito di giornalismo chiediamo una gentile concessione per una veloce foto.
Anche se potrebbe sembrare l’emozione più intensa del nostro viaggio, proseguiamo fino a un villaggio intermedio dove ci rifocilliamo con un lauto pasto e un tea preparato usando una tecnologia tanto innovativa quanto green: una parabola dismessa che riflette la luce del sole sulla teiera.
La strada è ancora lunga, almeno due ore di cammino nella splendida valle del khumbu. Ed eccole lì, si stagliano nel cielo due magnifiche aquile reali. Ancora pochi chilometri per raggiungere Dingboche, accompagnati dalla musica di sherpa-dj Sange. Piccola nota culturale: le patate non crescono al supermercato, ma sottoterra, dove qui vengono anche conservate e poi dissotterrate dai locali contadini.
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