Sindacati uniti per il rinnovo del contratto metalmeccanici

Sarà giovedì 11 l'attivo unitario dei metalmeccanici che discuterà la piattaforma in vista del rinnovo del contratto. Sergio Moia, responsabile della Fim provinciale, illustra l'iter e i punti che caratterizzano l'accordo

L’attivo unitario segna un punto di arrivo importante sia per i lavoratori metalmeccanici sia per la  Fim, Fiom e Uilm. Quali sono stati i passaggi salienti, comprese le conflittualità,  che hanno portato alla nuova piattaforma unitaria?
«L’intesa tra le tre organizzazioni è stata piuttosto travagliata perché dietro alla cifra da chiedere si è posto il problema del ruolo del contratto nazionale nella strategia rivendicativa della categoria.  In particolare per la Fim questo ruolo, in materia di salario, deve limitarsi al recupero del potere d’acquisto, per la Fiom dovrebbe distribuire anche una parte della produttività, da qui due richieste economiche inizialmente diverse.  La Fiom ha inoltre dovuto gestire la spinta salarialista di alcune sue componenti, che sono contrarie alla politica dei redditi su cui si è fondata la riforma della contrattazione del 1993 e che hanno visto nel rinnovo di questo contratto l’occasione per mettere in crisi quella politica. Alla fine, chiarito che per tutte e tre le organizzazioni il ruolo del contratto nazionale non è comunque in discussione,  la cifra delle 135.000 lire su cui si è trovata l’intesa è stata considerata una mediazione soddisfacente per tutti».
(nella foto sopra Sergio Moia responsabile provinciale della Fim)

Quali sono gli aspetti economici e politici innovativi della nuova piattaforma ?
«Dell’aspetto economico ho già detto. Posso precisare che per il recupero del potere d’acquisto sulla retribuzione media di un lavoratore metalmeccanico servirebbero 120.000 lire mensili, quindi si è chiesto qualcosa in più, in ragione del buon andamento dell’economia e del settore. Da un punto di vista politico la parte innovativa della posizione di Fim Fiom Uilm è quella programmatica, cioè la decisione di affrontare nel prossimo rinnovo della parte normativa del contratto, quindi tra due anni, due nodi spinosi nel confronto con la nostra controparte. Mi riferisco al problema della generalizzazione della contrattazione di secondo livello, anche con l’introduzione della contrattazione territoriale per le piccole fabbriche, ed a quello di un’ampia riforma dell’inquadramento professionale. Di questo secondo aspetto siamo particolarmente soddisfatti a Varese, perché è proprio in alcune fabbriche importanti della nostra provincia che sono stati fatti accordi molto innovativi, tali da contribuire a convincere le Segreterie nazionali che ormai i tempi sono maturi per metter mano a questo istituto contrattuale, ancora fermo alla stesura dei primi anni ’70».

Federmeccanica ha già mostrato di non gradire le rivendicazioni presenti nel documento unitario. È solo tattica precontrattuale o si ipotizza uno scontro sociale?
«È difficile dirlo oggi. Il contratto è stato spesso utilizzato da
Federmeccanica per obiettivi "politici" sia interni alla
Confindustria, che nel confronto con il Governo e quindi non ci
sarebbe da stupirsi se le tensioni sociali e politiche che già si
prospettano per i prossimi mesi finiscano per essere ulteriormente alimentate anche dal nostro contratto. Noi vogliamo evitarlo e coerentemente abbiamo preferito risolvere i problemi interni al sindacato prima di presentare la piattaforma, piuttosto che trasformarli in una possibile fonte di conflitti successiva. Del resto la cifra richiesta, come ho detto, è molto vicina a quella utile alla copertura del potere d’acquisto. Non si è chiesto molto di più, come pure qualcuno chiedeva. Se a questo sommiamo l’andamento positivo del settore e la diminuzione del prelievo fiscale sulle imprese prevista dalla finanziaria per il 2001, non vedo ragioni
economiche e sindacali per uno scontro sociale.

La Fim da tempo sostiene l’importanza della contrattazione territoriale, perché ? È su questo aspetto che bisogna aspettarsi, come lei afferma, "delle sorprese"?
«Dagli anni ’50 la Cisl sostiene che la contrattazione non può essere solo nazionale, perché in questo caso se si ottengono aumenti salariali sopportabili solo dalle aziende con i più alti tassi di produttività, si mettono in crisi le altre o, per evitare questo, si produce inflazione, che finisce per rimangiarsi gli aumenti. Se, nell’altro caso, si riducono gli aumenti salariali per renderli sopportabili anche alle aziende che stanno peggio, si regalano soldi a quelle che potrebbero riconoscere salari più alti. La riforma della contrattazione del 1993, di cui ho parlato prima, risolve questo problema riconoscendo il diritto ai due livelli di contrattazione. Quello nazionale finalizzato al recupero del potere d’acquisto dei salari, quello aziendale per il recupero al salario della produttività, più o meno alta secondo l’andamento dell’azienda. Lo schema funziona bene per le aziende in cui si fa contrattazione interna, ma per quelle in cui non si contratta perché all’interno non c’è il sindacato, sostanzialmente la grande maggioranza delle aziende piccole,  lo schema può funzionare solo se c’è una contrattazione territoriale. Cioè  una forma di contrattazione, magari articolata per settori, sufficientemente vicina al sistema delle aziende locali per tener conto del loro effettivo andamento economico.
Come ho detto sopra, questo è senz’altro un punto programmatico della piattaforma che premia l’elaborazione e le proposte della Fim di questi ultimi anni».

Sembra che negli ultimi mesi le segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil abbiano ritrovato un terreno di cammino comune, però solo su alcuni temi specifici, come nel caso delle dichiarazioni fatte da Giorgio Santini al recente convegno sulla sicurezza tenutosi a Busto Arsizio. Sono solo fuochi di paglia o si apre una nuova stagione all’interno della "triplice"?
«Tra le confederazioni in questi ultimi anni c’è stata una forte
divaricazione di opinioni su alcuni aspetti rilevanti della strategia sindacale,  ad esempio sui processi di partecipazione dei lavoratori, leggi azionariato dei dipendenti o proposte simili o sul peso degli iscritti nelle scelte del sindacato, o ancora sulle materie da affrontare con la legge o con il contratto. Ciò ha prodotto conflitti, a loro volta aggravati da interferenze politiche, che in queste situazioni difficilmente mancano, e in qualche caso anche dalla forte personalità o protagonismo dei leader confederali. Tutto questo è ben chiaro a chi vive nel sindacato, ma è altrettanto chiaro che senza qualche forma di unità si va tutti poco lontano e quindi finisce per essere connaturata alla strategia sindacale, soprattutto a quella confederale,  la ricerca di posizioni comuni, di unità.  Non si tratta quindi di fuochi di paglia, ma di un filo rosso che anche nei momenti più difficili continua a riproporsi nella trama dei rapporti sindacali».

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Pubblicato il 10 Gennaio 2001
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