Peppino Impastato: la voce della legalità

Varese – Di fronte ad una platea gremita da studenti varesini, dalle elementari alle medie superiori, Giovanni Impastato ricorda la figura del fratello ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978

Il sole e il vento di Sicilia gli avevano scavato la faccia, ma lo avevano anche reso saldo come una roccia. Lo sguardo intenso e forte di Peppino Impastato è immortalato sul grande schermo del teatro di Varese, mentre il fratello Giovanni  parla di lui con la voce rotta dall’emozione, di fronte a più di mille studenti. Sono passati quasi 24 anni da quando la mafia lo trucidò* per quel suo sguardo fiero, per il suo coraggio, per  i suoi sberleffi al potere di cosa nostra. Peppino Impastato aveva  operato una rottura inaspettata, perché avvenuta all’interno della propria famiglia che era mafiosa. 
«La verità storica sulla morte di mio fratello la si conosceva, nonostante i depistaggi messi in atto anche da apparati istituzionali, che volevano farlo passare per un  terrorista. Era un personaggio scomodo per la mafia e per il potere, ed è  stato ammazzato perché svegliava le coscienze. Oggi, dopo 25 anni, cosa indegna per un paese che si dice civile, abbiamo anche una verità giudiziaria».

Quando pensa a suo fratello, qual è l’immagine ricorrente che ha di lui?
«Non passa giorno che non rivolga un pensiero a Peppino. Ma l’immagine più bella che ho non è legata solo alla lotta alla mafia, alla sua ribellione a quel sistema di potere che negava diritti e dignità, ma è quella legata al suo essere artista. Era sorprendente perché parlando con lui e ascoltando le sue trasmissioni radiofoniche capivo che lui vedeva oltre. Aveva un orizzonte allargato, aveva una coscienza e una consapevolezza pasoliniane. Basti pensare alle sue lotte ecologiste. Oggi sarebbe di moda, ma lui lo faceva negli anni Sessanta. Nella storia di Peppino c’è l’affermazione della legalità come principio reale, cosa che in Italia è stata negata e continua ad esserlo dalle stesse istituzioni. Oggi non si vogliono fare più i processi e sta passando il principio che la legge non è uguale per tutti»

Peppino Impastato ha lasciato un’eredità importante. Perché la società civile siciliana e italiana non sono riuscite a capitalizzarla e dove è finito quel movimento di ribellione al potere mafioso che riempiva le piazze all’inizio degli anni Novanta dopo la morte di Falcone e Borsellino?
«Molti personaggi, finita l’ondata emozionale di quegli anni, vedi Leoluca Orlando o padre Pintacuda, hanno lasciato e si sono defilati. Fino a che c’erano i riflettori puntati, fino a che l’attenzione dei media era alta si facevano sentire. La verità è che la lotta alla mafia va condotta quotidianamente, spesso in sordina e spesso con piccoli gesti. Dopo la morte di mio fratello io e la mia famiglia abbiamo operato molte rinunce per continuare quella lotta. E per qualsiasi siciliano ogni volta che si ha a che fare con la mafia è un motivo di sofferenza, perché portiamo dentro di noi dei residui di quella cultura. Oggi c’è anche un clima difficile che ostacola chi vuole fare una lotta culturale contro la mafia. E’ sufficiente ascoltare le dichiarazioni di un ministro che afferma che con questa mafia bisogna  convivere. Quindi si capisce anche il cambiamento di strategia: le stragi non pagano più e invece si predilige l’inserimento completo nel sistema»

Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri, due modi differenti di affrontare in letteratura la sicilianità e il fenomeno mafioso.
«A Camilleri va dato atto di avere diffuso la cultura siciliana tra moltissimi lettori, con garbo e divertimento. Però è in Sciascia che il cuore del problema viene sviscerato e viene affrontato nei suoi aspetti più veri e anche contraddittori. Lui, prima di tutti gli altri intellettuali siciliani e italiani, aveva avuto un’intuizione geniale e cioè che la mafia non sarebbe morta con la fine dell’economia rurale e con l’inizio dell’urbanizzazione, ma si sarebbe adattata perfettamente ai nuovi affari e alla nuova economia cittadina, come poi si è verificato nella realtà. Ne "Il giorno della civetta" ci rimanda chiaramente questo messaggio. Anche il povero Sciascia è stato strumentalizzato in occasione  della polemica sui professionisti dell’antimafia, ma nessuno come lui aveva centrato così bene il problema.»

* Peppino Impastato viene assassinato il 9 maggio 1978,  il suo corpo è dilaniato da una carica di tritolo posta sui binari della linea ferrata Palermo-Trapani. Le indagini sono, in un primo tempo, orientate sull’ipotesi di un attentato terroristico consumato dallo stesso Impastato. Si parla anche di suicidio "eclatante". Il caso giudiziario è stato chiuso e riaperto per ben tre volte, sino ad arrivare alla recenti sentenza nei confronti del boss di Cinisi Gaetano Badalamenti e del suo complice Vito Palazzolo, accusati di essere i mandanti del delitto. Nell’udienza del 26 gennaio 2000 la difesa di Vito Palazzolo chiede che si proceda con il rito abbreviato, mentre il processo contro Gaetano Badalamenti si svolgerà con il rito normale e in video-conferenza. Il 4 maggio, nel procedimento contro Palazzolo, e il 21 settembre, nel processo contro Badalamenti, vengono respinte le richieste di costituzione di parte civile del Centro Impastato, di Rifondazione comunista e dell’Ordine dei giornalisti.
Nel 1998 presso la Commissione parlamentare antimafia si è costituito un Comitato sul caso Impastato e il 6 Dicembre 2000 è stata approvata una relazione sulle responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini. Il 5 marzo 2001 la Corte d’assise ha riconosciuto Vito Palazzolo colpevole e lo ha condannato a 30 anni di reclusione.

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Pubblicato il 28 Febbraio 2002
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