Pazienti immigrati e medici italiani, il grande ostacolo è la lingua
Presentati i risultati di una ricerca curata dall'università dell'Insubria, dalla Statale di Milano e dalla fondazione Ismu
È stato presentato a Milano il volume "Salute e Immigrazione: un modello teorico pratico per le aziende sanitarie" a cura di Mario Picozzi, docente di Bioetica all’università degli studi dell’Insubria, e Nicola Pasini, fondazione Ismu e università Statale di Milano. Una ricerca importante per capire il rapporto tra il paziente immigrato e le istituzioni sanitarie. La ricerca, prima del genere in Italia, si è basata su un campione di 18 interviste ad operatori di 9 aziende sanitarie e ospedaliere dei territori di Brescia, Lodi, Milano, Varese e Gallarate.
L’elemento più critico del rapporto è la lingua, che rende difficile la comunicazione per entrambe le parti: per il personale sanitario si traduce in registrazioni imprecise di dati anagrafici, anamnesi incomplete e difficoltà nello spiegare la cura prescelta; il paziente ha invece la sensazione di non essere curato perché straniero, prova ansia di fronte al camice bianco, mancanza di comprensione della prescrizione. Difficoltà rilevanti emergono anche da una diversa percezione del tempo: la pianificazione degli orari di visita e degli appuntamenti sono spesso sconosciuti all’ immigrato. Sfuggono anche le pratiche e i concetti di "prevenzione", "diagnosi", ma anche di "malattie croniche", "medicine e terapie a lungo termine" (come spiegare ad un diabetico extracomunitario "che deve provare la glicemia tutti i giorni per almeno un mese"?), "riabilitazione" (cos’è "una medicina che mi dice di fare ginnastica"?). Ed è problematico anche spiegare termini-concetti come "infezione" o "trasmissione", "malattia a trasmissione sessuale", che, anche tradotti in alcuni dialetti locali, non hanno un equivalente, oppure hanno, nella rispettiva cultura, un significato differente.
Inoltre, la permanenza in ospedale è percepita da molti immigrati extracomunitari come una forma di isolamento o punizione, soprattutto se nei Paesi d’origine la malattia è vissuta all’interno della famiglia e della comunità, senza ricorrere la medico. Non sono infrequenti i tentativi di fuga. Esistono problemi comunicativi con le donne di famiglie musulmane, in cui vigono gerarchie e ruoli di genere fortemente definiti, che portano il marito a porsi al centro della comunicazione, e dettano regole di segregazione di genere, come evitare l’incontro o l’isolamento in una stanza di medico e paziente di sesso diverso. In evidenza anche l’uso improprio del pronto soccorso, che rappresenta già di per sé un grosso problema dell’organizzazione ospedaliera italiana. L’affollamento cresce se gli immigrati non conoscono la lingua e non possono quindi rivolgersi al medico di base oppure se non dispongono di informazioni adeguate, e soprattutto se non riescono a capire le indicazioni fornite, finendo per ritornare.
È inoltre significativa l’affluenza di immigrati presso i reparti di ortopedia a causa degli incidenti sul lavoro e presso i reparti infettivi generata spesso da cattive condizioni di vita e di alloggio.
Come rispondono a tutto questo le aziende sanitarie? La ricerca descrive una situazione a macchia di leopardo, cioè un quadro tutt’altro che omogeneo in merito al grado di accoglienza, all’assunzione di responsabilità e all’organizzazione di risposte adeguate. Sulla base delle risposte ottenute, la ricerca ha effettuato una distinzione tra strutture "fredde", "tiepide" e "calde".
Nelle prime non si pongono l’interrogativo dei bisogni specifici dell’utenza immigrata e si affidano al personale interno o al volontariato senza ricorrere a mediatori linguistico-culturali o a corsi di formazione/aggiornamento specifici. In quelle "calde" c’è la situazioen opposta: si tratta di centri di eccellenza, originariamente nati per far fronte all’emergenza, per i quali però nel tempo la raccolta e l’interpretazione dei bisogni e la ricerca di risposte strutturali lungimiranti hanno sempre più costituito una necessità gestionale, amministrativa, sanitaria e etica. A prevalere sono però, le strutture "tiepide" che manifestano un certo interesse e preoccupazione verso i "nuovi" pazienti e sono consapevoli dell’inadeguatezza delle strutture sanitarie attuali all’accoglienza. Al loro interno, si fa ricorso a differenti strumenti di comunicazione/avvicinamento all’utenza, ma spesso sotto la pressione dell’urgenza ed esclusivamente quando esistono finanziamenti regionali o nazionali ad hoc.
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