Dal Pentagono a Tianjin: quando la guerra torna a chiamarsi guerra

Giuseppe Geneletti riflette sul significato del cambio deciso dal presidente Trump da Dipartimento di Difesa a Dipartimento della Guerra e sui segnali di un diverso ordine mondiale

Viaggio in USA di Giuseppe Geneletti

Quest’estate ho camminato lungo il Potomac, a Washington. Davanti a me, il Pentagono: enorme, basso e spigoloso, un blocco grigio-marrone che sembra inghiottire lo sguardo. Non è bello. È severo, impenetrabile. Rappresenta la forza organizzata degli Stati Uniti.

Qualche giorno dopo, a New York, ho visitato il Memoriale dell’11 settembre. Le due vasche nere, i nomi incisi, il vuoto lasciato dalle torri. E il ricordo che quel giorno non fu colpita solo Manhattan, ma anche il Pentagono stesso. Nello stesso luogo che voleva trasmettere potenza, si aprì una ferita. In quelle ore l’America mostrò al mondo i due volti che la accompagnano ancora oggi: la forza e la vulnerabilità.

Prima ancora di visitare la Casa Bianca e gli altri monumenti della capitale, sono stato ad Arlington, il grande cimitero militare. Tra le croci bianche e ordinate, davanti alla tomba di John Kennedy non mi sono commosso quanto mi sarei aspettato. È stato uscendo, nel piccolo museo, che qualcosa mi ha colpito all’improvviso: in una teca era custodita la tromba suonata al funerale di Kennedy. Ho letto il ruolo che aveva avuto in quella cerimonia, e subito ho sentito dentro di me l’emozione che da sempre accompagna il suono elegiaco della tromba. Una commozione inattesa, improvvisa. Forse perché in quel suono c’era meno retorica e più verità.

Tre “scatti” diversi, la potenza del Pentagono, la ferita dell’11 settembre, l’elegia silenziosa di una tromba, che mi hanno accompagnato nei giorni americani. Insieme mi hanno fatto pensare a quanto la guerra, per gli Stati Uniti, non sia solo una parola o una politica: è un’esperienza vissuta, interiorizzata, celebrata e pianta.

Dal 1945 gli Stati Uniti hanno combattuto in più di dieci guerre e operazioni armate, perdendo oltre 100.000 soldati: un tributo di sangue circa 130 volte superiore, in proporzione alla popolazione, rispetto ai meno di 200 caduti italiani nelle missioni internazionali. Forse per questo oggi, quando Trump decide di chiamarla di nuovo “guerra”, il gesto non è soltanto simbolico: tocca corde profonde della memoria nazionale.

Dal “War Department” alla difesa, e ritorno.
Non è un dettaglio di cronaca se il presidente Donald Trump, ieri, ha deciso di ribattezzare il Department of Defense come Department of War. È un ritorno alle origini: dal 1789 al 1947 quel nome era reale, poi venne sostituito da “difesa”. Una parola meno aggressiva, scelta per segnare la distanza dai fascismi e inaugurare l’era della deterrenza. Oggi, dopo più di settant’anni, “guerra” torna sopra la porta del Pentagono. È una parola che pesa come un macigno, perché in politica i nomi contano. Non descrivono soltanto: orientano, plasmano, creano aspettative e consenso.

Viaggio in USA di Giuseppe Geneletti

Il tempismo delle mosse americane.
Il cambio non arriva a caso. Pochi giorni prima, a Tianjin, Xi Jinping, Vladimir Putin e Narendra Modi si erano mostrati insieme, presentando al mondo l’immagine di un’alleanza multipolare. La risposta, anche di narrazione, americana è stata immediata: un’operazione navale nei Caraibi (2–3 settembre), un maxi-raid contro lavoratori migranti in Georgia, in un cantiere Hyundai-LG che doveva produrre batterie per auto elettriche (5 settembre), e, lo stesso giorno, il rebranding del Pentagono. Colpire fuori confine e colpire dentro: il messaggio è lo stesso, mostrare che la sovranità americana non si limita a difendersi ma decide, impone, punisce.

Roma, fascismo, populismo.
La storia conosce bene questi passaggi. Roma smise di difendere i confini e celebrò la guerra come fondamento dell’impero. Nel Novecento, fascismo e nazismo trasformarono la guerra in strumento di rigenerazione nazionale, costruendo nemici interni ed esterni.

Trump non è Mussolini né Hitler, ma la logica populista è simile: chiamare il popolo a raccolta contro un nemico. Nel Novecento erano le “altre razze” o le potenze rivali. Oggi sono le élite, i migranti, le istituzioni sovranazionali. Il campo di battaglia non è solo quello militare: è quello emotivo, culturale, identitario.

Populismi a confronto.
Allora i populismi si appoggiavano a regimi totalitari che controllavano stampa, radio e opinione pubblica. Oggi prosperano nella frammentazione, alimentati da social media (e algoritmi) che amplificano paure e polarizzano il discorso. Allora la propaganda parlava con voce unica.

Oggi basta un urlo moltiplicato per milioni di volte. In comune, però, resta l’alchimia che li fa nascere: crisi economica, paura di perdere status, bisogno di un capo che prometta risposte semplici(stiche) a domande complicate.

Gli altri.
In Germania cresce l’AfD, un altro partito populista, mentre il Paese si riarma dopo l’Ucraina. In Israele, una piccola nazione vive sospesa tra innovazione tecnologica e conflitto permanente. Due realtà diverse che ci parlano di un’Europa allargata, sempre più segnata da tensioni tra sicurezza e libertà. Intanto, Africa, India e America Latina chiedono più spazio. Rivendicano giustizia climatica, memoria del colonialismo, autonomia economica. Qui il populismo non è solo paura: è rivolta per un posto a tavola nel nuovo ordine globale. È una sfida che l’Occidente non può ignorare senza pagare un prezzo in credibilità.

I segnali da non trascurare.
Ci sono indizi chiari: il linguaggio che si fa sempre più bellico, la normalizzazione di gesti di forza, l’attacco a magistratura e stampa indipendente, la polarizzazione digitale che spacca le società. Ogni segnale, preso singolarmente, può sembrare isolato. Ma messi insieme disegnano un quadro di instabilità crescente.

Segnalo in tema l’interessante nuovo volume “Disordine. Le nuove coordinate del mondo”, scritto da Giuliano Noci, prorettore al Politecnico di Milano. Quali fattori possono arginare il ciclo populista? Anzitutto coalizioni democratiche che si riconoscano in poche regole condivise, quali stampa libera, magistratura autonoma, alternanza al potere, e capaci di ricostruire fiducia di base, soprattutto a livello territoriale e dei corpi intermedi. Servono poi politiche economiche visibili e rapide, su salari, servizi locali, casa e mobilità, per ridurre la tentazione delle “soluzioni semplici”. Anche i partiti devono rinnovarsi, tornando comunità radicate e non solo comitati elettorali, così che il leaderismo plebiscitario perda forza. Decisiva è inoltre l’alfabetizzazione mediatica, insieme alla trasparenza sugli algoritmi che alimentano rabbia e divisione. Infine, una cooperazione europea utile, fatta di risultati concreti su energia, difesa e migrazioni, può disinnescare la narrativa del “Bruxelles contro il popolo”. In fondo, il populismo riemerge quando angosce materiali e identitarie incontrano una comunicazione che premia il conflitto e istituzioni percepite come lontane.

Non siamo negli anni Trenta, ma il rischio non è nullo: non un colpo di Stato improvviso, bensì un’erosione lenta delle garanzie liberali, accompagnata da una politica di scosse simboliche (nomi, raid, muri, decreti), che sposta un po’ alla volta l’asticella di ciò che consideriamo normale.

La lezione del Pentagono. Ripenso alla foto scattata quest’estate. Un edificio che sembra eterno, ma che ha già cambiato nome e identità. Non è il cemento a garantire la forza di un impero: è la capacità di leggere i tempi e scegliere la direzione. Gli Stati Uniti oggi hanno scelto di rimettere la parola “guerra” al centro. A noi, in Europa, resta la domanda: vogliamo seguire quella strada, o immaginare un’altra narrazione, fatta di coesistenza e non di scontro? Non c’è una risposta univoca. Ma c’è la responsabilità di non restare spettatori.

USA, ex-porta

Viaggio in USA di Giuseppe Geneletti

Accanto a queste immagini americane, voglio aggiungerne una scattata in Italia: un’antica porta murata.

C’era un passaggio.
Tra il dentro e il fuori.
Tra chi entrava per restare
e chi usciva per cercare.

Ora è murato.
Pietra su pietra.
Mattoni di memoria,
e legno a ricordare che
una volta lì si passava.

Gli Stati Uniti erano una porta.
Per milioni.
Per idee, per merci, per storie.
Per dolori, per sogni, per esodi,
per me.

Oggi
quella porta è chiusa.
Ma ancora visibile.
Come tutte le promesse
non mantenute.

USA. Ex-porta.
Ma nessuna porta è chiusa per sempre.

di
Pubblicato il 06 Settembre 2025
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Commenti

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  1. Fabio Rocchi
    Scritto da Fabio Rocchi

    Peccato manchi una citazione dei regimi titalitari russo, cinese e nordcoreano, come elementi storici di rischio permandnte.

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