Dove si parla di Gianluca Zola, della trasfigurazione del Naviglio e di poesie al sapore di flamenco
Le ragioni di Silvia
La dolcezza dello sguardo castano di Silvia Venuti, la voce quieta e i gesti attenti, composti. I suoi versi, di straordinaria perspicacia, balenanti di infinite sfumature, l’amore profondo per i prati e le acque, il vagabondare silenzioso dei pennelli sulla tela per mondi di sospesa luce, ideale simposio per i capricci della parola. “Nelle ragioni della vita” è l’ultimo suo libro, fresco di stampa per i tipi delle Edizioni del Leone, con una prefazione affettuosa di Giorgio Bàrberi Squarotti. Un canto di profonda introspezione, una poesia di “puro pensiero fatto ritmo”, come scrive il grande critico torinese, la consapevolezza di una continua ricerca dentro e fuori di sé, che conduce alle porte del dolore ma anche a quelle della saggezza. “Bastasse dare un nome alle cose/e ridere un po’ di quest’assurda storia/della nostra vita!/Ma s’alzo lo sguardo,/incontro solo, occhi come i miei,/in domanda”. Non so se il mondo verrà salvato dai poeti, però il pensarlo aiuta.
Bontà Zola
Nell’infernale melting pot che ogni giorno inghiotte i cultori di Eupalla, spiccano due piccole gemme cronachistiche riguardanti campioni ormai pensionati o prossimi al parcheggio degli opinionisti: Vialli e Zola. Tutti e due migrati a loro tempo in Inghilterra, ma diversi per educazione e sensibilità. Mentre il Gianluca, fiero della nascita cremonese, vuole riportare sotto il Torrazzo un leggendario Stradivari che manca alla collezione del museo della liuteria, “quando ero centravanti a Cremona mi chiamavano stradivialli (sic)”, il “cavallino sardo” perde tutti i punti guadagnati in vent’anni di carriera, confessando a Gianni Mura con compiaciuto cinismo un demenziale segreto d’infanzia. Da ragazzo il “faro” del Cagliari buttava i gatti dal tetto per vedere se davvero avessero sette vite. Lui, Zola, di vita ne ha una sola, ma l’ha gettata nelle propria rete in pochi secondi.
La passione di Giancarla
Si rimane per un attimo in silenzio dopo la lettura dei versi affocati di Giancarla Bezzecchi, maestra e insegnante di flamenco. Sono parole scolpite, fulminanti, ansiose, quelle del suo libro sine nomine appena pubblicato. Versi di nostalgia e fedeltà, di impegno e sofferenza, ricolmi di una memoria ardente e partecipe “…mia madre/mi ha amato/con l’ago e con il filo/con il canto negli occhi/e lacrime di silenzio…”. Lo sa l’amico Evgenij Evtushenko, che le regala un abbraccio in prefazione “i tuoi versi sono il diario della tua anima”, lo sanno i molti allievi, abituati ad apprendere da Giancarla la passione del vivere, l’amore per le creature della Terra, l’attenzione costante per l’universo della sofferenza. Profetici, in questi giorni occupati dal dramma di Giuliana Sgrena, i versi dedicati all’Iraq: “Attende il sacrificio/ancora una volta/la carne povera del mondo. (…) Dove sono finiti/ Gesù Gandhi King/ e tutti gli uomini di buona volontà?” Già, dove sono finiti?
C’era una volta un piccolo naviglio
La Milano da bere di craxiana memoria ha mantenuto ancora qualche goccia di liquido, acqua sporca più che altro, quella che passa lenta sotto i ponti del Ticinese. Bastevole però per farci nuotare nuovi pescecani, specie in salute e costante espansione. Dove passeggiava Simenon e avevano bottega grandi artigiani, per una metamorfosi kafkiana compaiono scarafaggi in forma di ristoranti, pizzerie, birrerie, figli di un unico clone speculativo. Via i pittori, i negozietti dituttounpo’, il baretto con la spuma, l’ultima patina di vecchia Milano con l’odore di cantina e pipì di gatto, avanti il divertimento organizzato, il luna park dei consumi in serie, con locali identici insapori incolori come gli hamburger propinati dalle multinazionali della plastica in forma di alimento. Con la beffa del nome d’antan, “Premiata”, “Artigiana”, “Antica” che cala come una pietra tombale su quelle case cariche di storia, trasformate in mense per ricchi faccendieri griffati, con gippone e videofonino d’ordinanza. Milano extralarge per nanocervelli.
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