Andrea, sieropositivo: «Sogno solo una vita da anziano tra la gente»

La storia - Il nome è di fantasia, «Non posso espormi – dice- so per certo che perderei il lavoro»

Andrea ha 38 anni vive in provincia di Varese e fa il barman.
Andrea è un nome di fantasia e già la dice lunga sul fatto che la sua vita viaggi su doppi binari. E’ sieropositivo da quattordici anni, da quando, nel ’91, ha deciso di “mettere su famiglia” con un ragazzo.
«Volevamo un rapporto fisso, serio – racconta – e quindi, visto che in quegli anni si parlava molto di Aids, abbiamo deciso di sottoporci agli esami del caso. Io sono risultato sieropositivo e il mio compagno no».
Andrea parla con voce ferma, non cede all’emozione neppure per un momento e dimostra di aver imparato a gestire la sua situazione. Anche se i problemi non mancano e non sono solo quelli legate allo stato di salute: «All’epoca io e il mio compagno ne parlammo a lungo, gli proposi anche di troncare il nostro rapporto. Invece, siamo stati insieme per molto tempo e siamo stati anche molto felici.
Oggi è diverso: non ho rapporti stabili, ma appena una storia si fa seria rivelo il mio stato di sieropositivo, in caso di rapporti saltuari invece non è necessario entrare nei dettagli, usiamo sempre le medesime precauzioni».
Ma Andrea per la maggior parte dei suoi conoscenti non è sieropositivo, è un omosessuale simpatico e pieno di fantasia, uno che sa stare in mezzo alla gente.
«Già: se il mio datore di lavoro sapesse che sono sieropositivo, non malato di Aids sia chiaro, solo sieropositivo, probabilmente mi licenzierebbe. Per non parlare poi dei clienti.
Parliamoci chiaro, Varese è una città in cui conta apparire e lavorare. Se rientri in queste due categorie, vale a dire se sei elegante e presentabile e se sei un lavoratore “attivo”, allora la vita è più semplice perché sei del gruppo. In caso contrario è davvero dura.
Ecco perché non parlo di me agli altri. Vivo la stessa condizione di una donna giovane alla ricerca di un impiego: se intende sposarsi e magari fare dei bambini si vedrà sbattere in faccia molte porte. Io potrei, non oggi, ma in futuro, avere qualche problema fisico, dover assentarmi dal lavoro; inoltre tocco cibi e bevande, figuriamoci se i miei clienti sapessero che chi li serve è sieropositivo. Ancora oggi c’è chi non ha capito come si trasmette l’Aids».
Andrea, come tanti altri come lui, se deve andare dal medico, fare gli esami del sangue, cambiare la terapia deve inventarsi delle scuse, prendere giorni di ferie, permessi non retribuiti.
«E questo accade anche nelle istituzioni: conosco persone che non possono dire di essere sieropositive perché perderebbero il posto, magari solo perché sono a contatto con il pubblico. Trovo che sia una cosa terribile, più per loro che per me. Gli enti pubblici dovrebbero tutelarle queste persone e noi dovremmo imparare a fare causa, trascinare in tribunale chi ci licenzia. Ma non abbiamo la forza, l’energia di rinunciare al nostro stipendio, di esporre i nostri parenti e quindi tacciamo e a rimetterci siamo solo noi».
Varese volta le spalle alle persone deboli, questa è l’immagine davvero poco edificante della città?
«In parte è così, però chi cerca il supporto lo trova nelle l’associazione come “C.A.S.A” che lavora bene, così come il SERT; gli aiuti psicologici non mancano. E’ la gente che non capisce, che preferisce non vederci». 
Con questo quadro ci si domanda che senso abbia “celebrare il 1° dicembre”, solo per fare il punto della situazione o anche per “risvegliare le coscienze”?
«Mah – risponde Andrea – io spero solo che la situazione cambi in fretta: tra vent’anni sarò anziano e malato. Le aspettative di vita sono migliorate rispetto a dieci anni fa e oggi posso sperare di diventare vecchio, ma non vorrei, a quale punto, ritrovarmi ancora più solo. Spero che il 1° dicembre serva a questo, a garantire un futuro migliore, alla luce del sole, a tutti quelli come me».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 01 Dicembre 2005
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