Carta d’imbarco
Il racconto e le riflessioni del professor Salvatore nel giorno dell'operazione anti terrorismo nella capitale inglese
Appartengo alla sempre più affollata categoria dei pendolari del volo.
A Londra da un paio d’anni per ragioni professionali, prendo l’aereo per trascorrere il fine settimana con la famiglia che vive a Varese.
Mi sono più volte ripromesso di utilizzare i tempi morti trascorsi in quei frenetici villaggi globali che sono ormai diventati gli aeroporti per appuntare qualche riflessione, cristallizzare note di colore od annotare avventure o sventure che mi accomunano ad altri frequent flyers (espressione più raffinata utilizzata dalle compagnie aeree per individuare e contendersi l’eterogenea categoria di cui sopra).
Poche righe, da sintetizzare nell’esiguo spazio disponibile sul retro della carta d’imbarco, quando non già occupato da messaggi pubblicitari.
Poi la stanchezza o la pigrizia prevalgono e approfitto dei tempi di attesa per fare qualche telefonata, leggere il giornale o consultare la posta elettronica.
Tutto ciò non mi è stato possibile venerdì 11 agosto. La puntuale applicazione delle rigorose misure di sicurezza, disposte dal governo britannico all’indomani della rivelazione dello sventato attentato terroristico, hanno deprivato me e tutti gli altri viaggiatori non solo del bagaglio a mano, ma anche di computer, carta, penna, telefonino, libri e giornali.
Supero i numerosi filtri di polizia, in esclusiva compagnia dalla mia busta di plastica trasparente contenente i miei residui effetti personali (carta d’imbarco, documento d’identità, chiavi di casa, portafoglio, orologio e cintura), in un contesto in cui comincio ad accusare la sindrome del detenuto o deportato. Ma è entrando nella zona riservata ai passeggeri in partenza che avverto la sensazione più strana. Viene meno d’improvviso la colonna sonora che fa da sottofondo alla nostra quotidianità, caratterizzata dai bip dei computer che si accendono e si spengono, dalle polifoniche e talora improbabili suonerie dei telefonini, dalla digitazione frenetica dei tasti del blackberry. Il silenzio è amplificato dall’ovattata atmosfera della lounge, altrimenti invasa da viaggiatori armati di gadget tecnologici e relative emissioni acustiche.
E’ una condizione surreale che quasi costringe i passeggeri a non ignorarsi reciprocamente, come ormai diffusamente avviene, ed anzi li stimola a conversare tra loro e a riscoprirsi parte di un gruppo accomunato dalla giustificata ambizione di riuscire, prima o poi, ad imbarcarsi sull’agognato volo.
Il mio decolla con un’ora di ritardo. Poca cosa rispetto alle più nefaste aspettative.
In Italia, peraltro, ormai a notte inoltrata, arrivo solo io e la predetta busta di plastica trasparente dal prezioso contenuto.
Il mio bagaglio a mano, inopinatamente riclassificato da stiva, ha perso il volo di coincidenza a Francoforte, aeroporto da cui sono stato costretto a transitare a causa dell’imprevista cancellazione di più confortevoli collegamenti diretti.
La mattina dopo mi sono “riconciliato” con la mia valigia. Il termine è tecnico e gergale e sancisce il ricongiungimento del passeggero con il proprio bagaglio smarrito. Il sentimento che ho provato è stato tuttavia quello di una necessaria riappacificazione con un sistema complesso dal quale non posso sottrarmi, pronto a risottopormi alle sue dinamiche il giorno successivo.
Alla prossima, anzi, al prossimo volo.
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