Quel viaggio in aereo dopo la strage
I lettori di Varesenews ricordano il "loro" 11 settembre
Sono partito per gli Stati Uniti il 22 settembre 2001.
A dire il vero, il mio biglietto era prenotato per sabato 15.
La tratta era: Malpensa – New York, New York – St. Louis.
Un viaggio di lavoro, che mi avrebbe tenuto negli USA per 15 giorni.
Poi, il martedì prima di partire, l’attacco alle torri e la conseguente
chiusura degli aeroporti. Quando la situazione si sblocca, con due colleghi riusciamo a partire: sono passati solo 11 giorni dagli attentati.
Il volo per New York è semi deserto e, ricordo bene, si respira un’aria di diffidenza. Ci si guarda in faccia: ognuno cerca di capire, solo dalle fisionomie, la potenziale "pericolosità" di ogni singolo compagno di viaggio. All’arrivo in aeroporto c’è un clima quasi surreale: i passeggeri in transito sono pochissimi e quasi si perdono nei grandi spazi, studiati per un flusso di persone ben più alto. Quello che è certo è che non si può sgarrare: le regole
di sicurezza vengono messe in pratica con una meticolosità quasi maniacale. Per prendere l’aereo che ci porterà in Missouri, dobbiamo superare perquisizioni che vanno dalla fibia della cintura ai tacchi delle scarpe.
L’America che troviamo a St. Luois è ferita, ma già piena di voglia di ripresa.
I viali, le case, persino le macchine e i giardini sono completamente
tappezzati di bandiere. Qualcuno, con la vernice, l’ha addirittura disegnata sull’erba del proprio giardino!
Inutile cercare nei negozi un souvenir che parli d’america. Le bandierine e le magliette a stelle e strisce sono completamente esaurite.
Nel cielo non è raro il passaggio di aerei da guerra: ci dicono che è un modo per far sentire la gente protetta e sicura. Sarà, ma a noi genera solo maggiore inquietudine.
Parlando con gli stessi americani però, ci rendiamo conto che, nonostante il poco tempo trascorso e la gravità della situazione, e nonostante un certo desiderio di rivalsa, tutti sperano in una soluzione pacifica del problema.
E, anche nei confronti dei numerosissimi immigrati ormai ‘americanizzati’ non ci sono atteggiamenti di disprezzo.
Ma la cosa più sorprendente la sentiamo una sera, a cena a casa di un collega.
Lui è italiano, ma vive lì ormai da anni, sposato con una ragazza americana che di professione insegna inglese agli stranieri.
È lei a parlare: “Quando ho capito quello che stava succedendo ho subito pensato ai miei studenti: loro avrebbero fatto ancora fatica a capire le notizie dai telegiornali. Potevano rimanere confusi e spaventati. E probabilmente si sarebbero trovati in difficoltà nei posti di lavoro, per strada o nei negozi.
Così ho pensato di raggiungerli subito tutti telefonicamente, per ritrovarci insieme a vedere i telegiornali e capire gli avvenimenti. Soprattutto non volevo che si sentissero soli, isolati o spaesati”.
Personalmente, queste parole mi hanno fatto pensare molto. Di fronte a quanto era successo, mi aspettavo una reazione molto diversa. Infatti avrei giustificato un atteggiamento del tipo: con tutto quello che si fa per loro, ecco come ci ripagano!!
Invece, in lei come in chissà quanti altri, i sentimenti più forti erano
ancora quelli di pace e di accoglienza.
Mi chiedo tutt’ora: cosa combatte più radicalmente il terrorismo? le bombe o i comportamenti come questi?
I 15 giorni scorrono veloci: è già tempo di tornare in Italia.
Durante l’atterraggio per lo scalo a New York possiamo vedere coi nostri occhi il grande vuoto lasciato dalle torri.
Sul volo per Malpensa tutti hanno la coscienza di essere su un aereo in partenza da New York, coi serbatoi pieni di carburante, del tutto simile a quelli dirottati. Il batticuore è forte e sulle facce di tutti si leggono tensione e nervosismo. Perché si sciolgano bisognerà aspettare a lungo, quando saremo ormai lontani dall’America.
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