Deportati ebrei per un giorno, la scuola “diventa” un lager
Timbri sul braccio e finte camere a gas: la descrizione dell'iniziativa choc di una scuola del tradatese
“Non siete niente. Non siete miei amici. Avanti, mettetevi subito in fila. Silenzio. E toglietevi quei sorrisi dalla faccia, non c’è niente da ridere”. Dure parole con cui vengono accolti gli studenti di terza media di Tradate, nella scuola di via Trento Trieste, dove l’aula magna è stata trasformata nel Block 31, l’area riservata al gioco dei bambini nel campo di Birkenau, vicino a quello di Auschwitz, dove poi i piccoli venivano mandati a morire.
Ad accogliere gli studenti, una classe per volta, un lungo corridoio, in fondo al quale, al posto della porta dell’aula magna, è stata riprodotta una gigantografia di Auschwitz.
“In fila, in silenzio, zitti – prosegue il capobaracca vestito di bianco, interpretato dall’ideatore dell’installazione, Moreno di Trapani, che guida i ragazzi in questo lugubre viaggio facendosi sentire battendo per terra un bastone di legno -. Prima le ragazze poi i ragazzi. In fila per uno. Tu hai qualche problema?” dice duro a un ragazzino che ha provato a sbuffare.
Le ragazze prima, e i ragazzi poi, vengono messi in fila di fronte a un tavolo. Una ragazza vestita di nero attacca sul petto a ognuno di loro la stella gialla di Davide, con scritto a mano “Jude”. Poi scopre loro il braccio e con un timbro stampa loro sul braccio un numero progressivo. Viene consegnato anche un paio di occhiali per vedere le proiezioni in tre dimensioni.
Di fronte a loro una spaccatura nel cancello di Auschwitz. Oltre di esso il buio.
“Toglietevi le scarpe – urla il capobaracca – Mettetele in ordine, in fila. Ed entrate. Avanti. Uno per volta. Non voglio sentire una parola”.
Ad accogliere i ragazzi al buio, una costruzione in legno. Una riproduzione delle cataste/letto dove dormivano gli ebrei.
”Sedetevi per terra, a sinistra le femmine, a destra i maschi”, urla il kapò.
”Sedetevi per terra, a sinistra le femmine, a destra i maschi”, urla il kapò.
Gli occhi cominciano ad abituarsi al buio. Ai lati della stanza, teli neri che arrivano a chiudersi su teli trasparenti.
I bambini sono tutti seduti. Cala il buio. Parte il filmato.
Una candela si accende vicino allo schermo. Il capobaracca e la ragazza che timbrava sono immobili ai lati della proiezione, rigidi.
Sul telo scorrono le immagini dei campi di concentramento. Soprattutto bambini, nudi, denutriti, ammassati. Una candela accesa a lato dello schermo, unica fonte di luce.
Dieci minuti intensi di immagini in bianco e nero che i ragazzi vedono in tre dimensioni. Niente musica, solo il suono di un treno con destinazione Auschwitz.
Cala il silenzio. Il buio. Poi l’immagine di un ufficiale tedesco sullo schermo. L’urlo di lui che indica ai bambini cosa fare.
Si accende la luce.
Si accende la luce.
“Erano le immagini di bambini come voi, su cui si facevano esperimenti sulla tubercolosi – spiega il capobaracca –. Nessuno di loro è sopravvissuto. Dopo gli esperimenti venivano mandati nelle docce e gassati. Adesso anche voi entrerete nelle docce. In fila”.
I bambini si alzano, maschi e femmine sempre separati.
Vengono fatti entrare in file oltre il telo di plastica trasparente.
Ad attenderli manichini bianchi senza testa. Il capo è per terra, abbandonato. Sul muro in fondo alla stanza un telo, disegnato a carboncino, che rappresenta i bambini nei campi di concentramento.
“Voi siete il futuro – spiega loro Moreno, che abbandona il tono duro del capobaracca -. Sessanta anni fa avreste potuto essere voi quei bambini. Non dovete dimenticare. Fatelo perchè non accada più. Lo dovete a quei bambini”.
I ragazzi vengono fatti uscire. Nessuno ride. Nessuno parla. Raccolgono in silenzio le loro scarpe lasciate ammassate all’ingresso.
Affrontano senza dire una parola quell’ultimo tragitto del corridoio, con filo spinato da un lato, che li porta fuori da quella esperienza. In classe. Nella vita di tutti i giorni.
I ragazzi vengono fatti uscire. Nessuno ride. Nessuno parla. Raccolgono in silenzio le loro scarpe lasciate ammassate all’ingresso.
Affrontano senza dire una parola quell’ultimo tragitto del corridoio, con filo spinato da un lato, che li porta fuori da quella esperienza. In classe. Nella vita di tutti i giorni.
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