Una giornata con Patch Adams, dottore in “sorriso”
Il racconto di Emanuela Crivellaro, volontaria in pediatria, per due giorni al fianco del padre della "comico terapia"
Ho avuto la fortuna di rimanere accanto, per ben due giorni, a Patch Adams, una persona fantastica, che mi ha regalato profonde emozioni. Emozioni che non si sono esaurite con la sua partenza, ma che continueranno ad essere dentro di me.
Già la notte precedente il suo arrivo avverto l’intensità di quello che avrei provato. Sono agitata, non riesco a prendere sonno. Durante il tragitto verso l’aereoporto, telefono a Cristina, la bravissima interprete che lo accompagna, per chiederle dettagli per riconoscerli. Preoccupazione inutile! Non puoi non notare subito Patch Adams. Altissimo, ma soprattutto “colorato”. Il suo abbigliamento, fatto di fiori, animali, fantasie vivaci, la lunga coda di cavallo un po’ bianca e un po’ blu, non passano inosservati.
Gli vado incontro, perché se io l’ho subito visto, lui non sa come sono. “I’m Emanuela” e lui mi risponde prendendomi in braccio, sollevandomi da terra, circondandomi di affetto spontaneo. Ecco, ha immediatamente stabilito un contatto. Un contatto che io non ho ancora perso …..
Lungo la strada verso Varese, gli spiego che sono una volontaria e che mi occupo dei bambini in ospedale. Mi chiede se andremo a trovarli, perché tra tutte le iniziative alle quali deve partecipare è quella a cui tiene di più.
E che il suo ambiente naturale sia quello dove c’è sofferenza, è subito chiaro non appena arriva in pediatria.
Non ama la confusione Patch, lui non fa spettacoli, vuole solo rimanere con i bambini ricoverati. Concede poco tempo ai giornalisti e ai fotografi, perché è impaziente di dare e ricevere “love”. Non vuole essere ripreso mentre dedica se stesso ai piccoli ammalati, perché nulla lo deve disturbare mentre interagisce con il bambino.
Incredibili le sensazioni che riesce a trasmettere, la carica emotiva che sprigiona, la sensibilità che possiede nel cogliere il bisogno dell’altro. Con un piccolo che ha la leucemia e che, da grande, vorrebbe fare il macchinista del treno, facciamo il trenino: il bambino in braccio al papà fa la locomotiva e noi, flebo compresa, tutti in fila a fare i vagoni. E il piccolo, dietro la mascherina, ride, ride, ride …….. Con una piccolina di poco più di due anni, colpita da encefalite, motivo per cui non parla, Patch non usa la parola, ma solo gesti, carezze, suoni. E lei lo tocca, comunicando con lui in una maniera tale da far venire a tutti la pelle d’oca. Solleva neonati, adora prenderli in braccio. Solitamente diffidenti con gli estranei, i piccolissimi dimostrano piacere di essere con Patch con inequivocabili espressioni beate.
Mi spiega che gli è più facile aiutare i bambini ad elaborare la sofferenza, rispetto agli adulti, perché i bambini hanno una marcia in più: il gioco!
Prima di entrare in reparto, si prepara. Ha una specie di cintura dalla quale pendono delle sacche piene di giochini e tante piccole cose. La allaccia in vita e, per nasconderla sotto i larghi pantaloni, con molta naturalezza, li cala, mostrando dei comodi boxer, ovviamente multicolori. Mi ha colpito questa sua informalità, che non fa mai rima con volgarità. Cambia spesso gli oggetti del gioco, tranne un vecchio, superusato, morbido pesce, piuttosto bruttino che utilizza sempre.
Patch, nei suoi movimenti, pur essendo così imponente, è delicato e gentile. Chiede sempre il permesso ai genitori e/o al primario, prima di toccare un bambino in ospedale.
Ha una vitalità inesauribile, sembra non debba cedere mai. Ma come tutti gli esseri umani, quando sono stanchi e hanno 10 ore di volo sulle spalle, si appisola in auto durante gli spostamenti.
Patch non si sente “uno famoso”, non rilascia autografi e non ama farsi fotografare. Si presta, perché capisce che la gente desidera un suo ricordo, ma cerca di limitare tutto ciò. E questo non perché voglia fare il “prezioso”, ma perché prova imbarazzo. Quando invoca: “Save me!” lo prendo per mano e lo porto via dalla confusione.
Se però gli chiediamo di abbracciarci, di ridere con noi, di giocare, di scherzare, di parlare del suo stile di vita, di insegnarci a vivere in pace e con amore, allora non dice “Save me!”.
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