Quando Mike Bongiorno mi sgridò
Il ricordo di una giornata passata negli studi Mediaset aspettando il Re della Tivù. E della sua conclusione
E’ morto Mike Bongiorno e il suo ricordo porta indietro le lancette del mio orologio biologico di oltre vent’anni: a quando io ero una giovane di belle speranze, disposta – come tutti i ragazzi che volevano tanto fare i giornalisti negli anni ottanta – ad aspettare ore e giorni i big della tivù per strappare loro qualche intervista.
Ottenere una intervista da Mike Bongiorno era il massimo: lui era il Re dei telequiz del varietà, della tivù tutta insieme. Di più: da alcuni anni era l’icona della nascente tivù privata, dopo esserlo stato della Rai Televisione Italiana. Non era facile, ma un giorno accadde l’insperato: da pischella di belle speranze, in uno dei tanti giorni in cui sostavo “in caccia” negli studi di Cologno Monzese, quartier generale di tutte le produzioni Mediaset, riuscii a convincere l’Icona a farmi rilasciare un’intervista. «Va bene, ma alla fine delle registrazioni» mi disse. E così mi misi, trepidante e speranzosa, ad attenderlo.
Era subito dopo pranzo, e io avvertii a casa che avrei fatto tardi, l’agenzia radiofonica per cui lavoravo che forse avrei potuto portare un’intervista speciale a Mike Bongiorno e gli amici che “poi ti racconto”. Intorno all’ora di cena però non c’era ancora traccia di Mike Bongiorno, chiuso nel bunker delle registrazioni. Solo qualche tecnico e costumista mi segnalava che era lì «e pure di cattivo umore, perché non andava bene niente». La tentazione di andarsene c’era, per una ragazzina alle prime armi come me, ma l’assistente di studio mi convinse: «Guarda che se ti ha detto che ti rilascia l’intervista te le rilascia: non ti dimentica di sicuro. Anzi, se non ti trova all’uscita, scordati di avere un’altra possibilità. Si ricorda bene anche le facce».
Insomma, la nomea era che Mike Bongiorno era tanto bravo, professionista e meticoloso quanto severo: non iracondo, severo. Pretendeva da tutti il rigore che aveva lui nel lavorare.
Morale: si fecero le due di notte, e io che a Cologno Monzese – estrema periferia di Milano – ero arrivata in metropolitana, cominciavo ad avere un bel problema. Mike Buongiorno, però, come da promessa alla fine uscì da quello studio e si avvicinò serio serio a me. Mi disse: “cosa vuoi sapere?” e io balbettai una domanda che avevo avuto 12 ore di tempo per pensare, sviscerare e sbriciolare nella mia testa, davanti a quel volto che rappresentava la Televisione Italiana. E la pronunciai male, mettendo le parole insieme tutte sgarrupate, come solo la stanchezza e l’emozione possono fare.
Quell’uomo – l’Icona, la Televisione, il Quiz impersonificato – dopo una intera giornata di lavoro e di fronte a una faccetta spaurita, non ebbe esitazioni: «Ma come parli? Ti sembra il modo di fare una domanda, per una ragazza che ha ambizioni di diventare giornalista? Adesso prendi e rifai tutto da capo». Spensi il registratore, lo riavvolsi e ricominciai, cercando di prendere fiato.
E alla fine feci l’intervista a Mike Bongiorno, uno dei più straordinari ricordi dei miei albori nella professione.
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